Brexit, primo episodio: la fine dell’inizio

La Brexit a tamburo battente, chiesta da Boris Johnson, da votare entro il 31 ottobre, pena l’uscita del Regno Unito dalla UE senza una intesa, non ci sarà. Ma, allo stato delle cose, non si terrà neppure un secondo referendum. Il popolo deciderà sulla proposta del Primo ministro in modo indiretto, attraverso elezioni anticipate. Dopo un lungo tira e molla durato 3 anni e mezzo, con due accordi conclusi tra il Governo conservatore e Bruxelles una elezione nel 2017 e numerose estenuanti battaglie parlamentari, Boris Johnson è riuscito a compiere un passo importante sulla strada della Brexit, ottenendo a grande maggioranza il voto della Camera dei Comuni a favore di elezioni anticipate. Un capitolo si chiude, ma se ne apre un altro denso di incognite.

Johnson ha fatto una scommessa tanto semplice quanto ardita: chi voterà per il suo Governo voterà per la Brexit così come egli la ha negoziata con Bruxelles. Con lo slogan “get Brexit done” ossia concludiamo la Brexit, il Primo ministro fa appello a quell’opinione pubblica, non solo conservatrice, che chiede una fine a questa lunga agonia. Ormai da tempo, infatti, nessuno parla più del merito e della sostanza economica della Brexit (uno studio del think tank Niesr  pubblicato oggi ha ribadito quanto altri istituti economici vanno ripetendo, ossia che la Brexit danneggerà l’economia britannica e che quella negoziata da Johnson sarà ancor più nociva di quella di Theresa May) ma dell’opportunità politica di trovare una via d’uscita a qualsiasi costo.

Una grossa fetta del mondo politico era dell’opinione che la Brexit sarebbe stata risolta in modo più adeguato con un secondo referendum, ponendo un quesito chiaro, che offriva un’alternativa tra la proposta di Johnson e rimanere nella UE. Costoro, forti di sondaggi che oggi danno il remain in vantaggio sul leave in una proporzione attorno al 55% rispetto al 45%, sostengono infatti che, dopo 3 anni di dibattito, la gente si è fatta un’opinione più chiara della posta in gioco e avrebbe dato un giudizio più maturo e pertinente. Un’elezione include infatti altri temi ed è difficile da interpretare. Ma, da circa un mese, era ormai sempre più chiaro che una parte dell’elettorato laburista, rispecchiato da una ventina di parlamentari del partito, era a favore del leave e contro un nuovo referendum. A cui si aggiunge un gruppo nutrito di parlamentari conservatori remainer che hanno scelto di onorare il risultato referendario del giugno 2016. Al di là delle preferenze personali di Corbyn, che è sempre stato tiepido verso la UE, è un fatto che il leader del labour non poteva permettersi di andare contro il volere del 20% del proprio elettorato, che sarebbe stato intercettato dai Tory. Le elezioni, per Corbyn, sono infatti un terreno migliore per vendere tutto un pacchetto politico che, oltre a predicare una Brexit più morbida, ha un ambizioso programma di sinistra, marcato da una forte spesa pubblica e nazionalizzazioni a raffica.

In sintesi, al di là dei nazionalisti scozzesi, che faranno il pieno di voti anti-Brexit alle prossime elezioni, i Tory contano non solo di vincere ma vincere in modo netto, cambiando la natura stessa del partito, spostandolo decisamente più a destra con la sostituzione di molti parlamentari remainer. Una dozzina di questi ha già peraltro messo in chiaro che non si ricandiderà. Se Johnson riuscirà nella scommessa e vincerà le elezioni con un partito fedele, la sua Brexit potrà passare una volta per tutte con una maggioranza compatta. Nel Regno Unito, col sistema uninominale, c’è un forte premio di maggioranza, per cui con poco più di un terzo dei voti, a seconda del gioco dei collegi, un partito può ottenere la maggioranza assoluta. Johnson gioca peraltro sul fatto che i laburisti sono divisi sia sul programma economico, che la destra del partito accetta a malincuore, sia sul rischio di perdere seggi a favore dei liberaldemocratici, che si sono posizionati chiaramente anti-Brexit e faranno il pieno di voti filoeuropei, dato l’atteggiamento amletico di Corbyn. In altre parole, un esito con quarto di voti ai liberaldemocratici, poco piu’ di un quarto ai laburisti e poco piu’ di un terzo ai Tory aprirebbe la strada a una vittoria di Johnson. Questa dipende però anche, in minore misura, da come il partito pro Brexit di Nigel Farage si comporterà. Farage ormai è posizionato sulla Brexit pura e dura e attende il primo incaglio di Johnson per saltargli alla gola. Ma ormai il Primo ministro ha preso una posizione abbastanza netta che lascerà poso margine di manovra a Farage.

Tornando alla sostanza delle cose, se la Brexit di Johnson passasse dopo il voto, il Paese prenderà una direzione marcatamente diversa, con rapporti ancora più blandi con la UE rispetto alla intesa della May. Il che, secondo lo studio del NIESR che abbiamo citato, in assenza di nuovi accordi con altri Paesi, tutti da realizzare, aumenterà da subito le barriere al commercio tra UK e UE, danneggiando l’economia britannica, destinata a rimpicciolirsi tra 10 anni di 70 miliardi di sterline, pari a una contrazione del 3,5% rispetto alla dimensione che avrebbe avuto restando nella UE . L’accordo di uscita peraltro è soltanto una fase nel percorso del nuovo rapporto con la UE, dato che dovrà essere negoziato il nuovo rapporto economico con l’Unione e per questo c’è tempo soltanto un anno entro fine 2020, dopodiché si chiuderà la rete di protezione del periodo transitorio e, in mancanza di un’intesa si creerà nuovamente il rischio di una hard brexit. Ipotesi non peregrina perché, mentre l’accordo di divorzio è un documento con base legale, il futuro accordo commerciale con la UE è semplicemente una dichiarazione di intenti per trovare un nuovo assetto che deve essere ancora negoziato e tutto da provare. Se poi la Brexit di Johnson passasse per un pugno di voti, data l’esigua maggioranza che Johnson rischia di ottenere nella migliore delle ipotesi, le recriminazioni del fronte dei perdenti saranno destinate a continuare e crescere nel caso la performance economica del Paese iniziasse realmente a perdere colpi. Insomma, la storia è lontana dall’essere finita. La saga continua.

 

  • habsb |

    egr. sig. Niada

    trovo semplicemente scandalosa l’idea di proporre un secondo referendum. Sarebbe un insulto alla volontà sovrana popolare : non avete capito niente, quindi rivotiamo finché non voterete come voluto dalla casta politica.

    Se il primo referendum avesse rigettato il Brexit, ne sarebbe stato fatto un altro 3 anni dopo ? Forse che i referendum storici che hanno abolito la monarchia, o reso leciti divorzio e aborto, sono stati ripetuti 3 anni dopo per dare il tempo al popolo di “riflettere e capire” ?

    Io mi chiedo a che serve avere 60 milioni di cervelli se poi le riflessioni vengono fatte da oscuri “think tank” che non sono altro che piccoli gruppi di individui come Lei o me. Se le decisioni sono prese da una ristretta casta di uomini politici secondo il loro proprio interesse.

    Non siamo piu’ all’epoca di Cromwell quando la grande maggioranza non sapeva neppure leggere ed era giocoforza delegare il governo del paese a un piccolo numero di “sapienti”. Oggi possiamo trovare fra gli elettori individui ben piu’ competenti di qualunque “think tank”. Individui maturi che gestiscono imprese di successo, e che saranno sempre di consiglio piu’ saggio e accorto che i giovani accademici che riempiono i “think tank”, o che i politici che non conoscono nient’altro che gli intrighi e le manovre di partito e che solo i limiti imposti al loro potere da un ordinamento quasi liberale impediscono di guastare l’economia come nei paesi socialisti.

    Spero vivamente che il popolo britannico saluterà Mr Johnson come il solo uomo politico che ha fatto di tutto per rispettare la volontà popolare, premiandolo con una larga vittoria.

    E spero ugualmente che la ritrovata libertà dei britannici e lo slancio economico che seguirà le loro riforme sarà d’ispirazione anche ad altri paesi come il nostro, per rigettare i diktat franco-tedeschi e avvicinarsi sempre più ai nostri amici americani emulandone i brillanti successi economici, ignoti all’Europa delle tasse e della burocrazia

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