Diciamolo subito: contrariamente al Nord Irlanda e alla Scozia, Londra non ha alcun potere per dichiarare l’indipendenza, anche se, assieme alle altre due regioni, è stata la terza a esprimersi chiaramente per rimanere nella UE con il 60% dei consensi. “Per quanto mi piaccia l’idea della città-stato – ha detto il neo-sindaco Sadiq Khan subito dopo l’esito del Brexit – oggi non posso parlare seriamente di indipendenza. Non ho intenzione di mettere posti di frontiera attorno al raccordo anulare M25”. La devolution di Tony Blair non ha infatti dotato legalmente la capitale, come pure il Galles, da 5 secoli saldamente ancorato all’Inghilterra, di un grado di autonomia sufficiente da potere avviare un processo di distacco. Mentre il Galles ha cultura e tradizioni lontane che potrebbero giustificarne teoricamente una secessione, un’indipendenza della capitale avvierebbe un processo devastante, un’auto-decapitazione che porterebbe alla fine della sostenibilità economica dell’isola. Oltre a quella della stessa capitale, a meno che riesca nella rocambolesca impresa di negoziare uno status autonomo come Hong Kong rispetto alla Cina o addirittura da Città Stato come Montecarlo o Singapore.
In effetti, quella che pongo, parrebbe a prima vista una domanda oziosa, oltreché inutile, anche se una provocante petizione post Brexit che propone l’indipendenza della capitale ha raggiunto 180mila firme mentre scriviamo. In realtà, se è vero che Londra non ha i requisiti storici di una nazione che possa chiedere l’indipendenza, negli ultimi 20 anni la città è diventata un’anomalia rispetto al resto del Paese, un’escrescenza ormai giunta al limite di un corpo estraneo che molti favorevoli al Brexit hanno voluto contenere. Città aperte e cosmopolite ce ne sono state tante nella storia, ma mai nelle proporzioni e peso della capitale britannica. La Grande Londra, che ha una superficie quanto metà della Val d’Aosta, conta per il 22% del pil del Paese e ha registrato dalla crisi del 2008 a oggi una crescita media di quasi il 3% annuo, mentre il resto dell’isola ha navigato attorno all’1%. Oltre un abitante su tre residente è nato all’estero. Nella città si parlano 200 tra lingue e dialetti e decine sono le etnie e religioni. Londra ha oggi circa 8,7 milioni di abitanti che diventano quasi 10milioni se si conta l’intera area urbana, pari al 13% della popolazione del Regno Unito. Ufficialmente risiedono poco più di 1 milione di europei, ma la stima più probabile è di 2milioni, di cui almeno 250mila italiani e altrettanti francesi.
Londra ha avuto alti e bassi, crescendo e contraendosi come una stella. Nel 1939 ha raggiunto il picco di 8,6 milioni di abitanti, dovuto in piccola parte all’immigrazione estera delle colonie e in massima parte dal prosciugamento delle campagne, con una proporzione del 19% sul totale del Regno Unito. Dopo la Seconda Guerra è andata decrescendo inesorabilmente, complice un tracollo economico negli anni ’70. C’è stata una contrazione del 25% degli abitanti fino a toccare un minimo di 6,6 milioni nel 1981, lo stesso livello di inizio 1900. Da allora la riscossa, con una crescita dapprima lenta e poi sempre più accelerata, fino a superare qualche mese fa il record ante guerra. Il nuovo boom, che prosegue a colpi di 100mila abitanti all’anno, quanto la popolazione di Trento, è stato sostenuto da un’ondata di 1 milione di europei e quasi un milione di extraeuropei, a cui vanno aggiunte le nascite che sono state generate.
Ma parlare di quantità, per quanto riflettano il dinamismo di una metropoli, ha poco senso, se non si considera il fatto cruciale che Londra ha un’economia specializzata che ne fa la capitale europea della finanza, del mercato dell’arte e collezionismo, della musica, dell’architettura, dei media, dell’accademia, dei musei, comunicazioni e videogiochi, del design, del teatro, insomma tutte quelle attività su cui poggia l’economia del futuro. Londra ha un’economia enormemente sovradimensionata rispetto ai bisogni del Regno Unito, dato che serve da hub di tutta Europa, di cui ne è diventata la capitale virtuale.
A questo punto si capisce come nascano le petizioni, come Sadiq Khan abbia posto subito l’agenda di maggiore autonomia di bilancio (che aveva chiesto inutilmente a suo tempo lo stesso Boris Johnson) superando di slancio il tetto del 7% delle entrate fiscali allocato alle spese quando New York e Tokio possono spendere rispettivamente il 50% e il 70% delle proprie entrate. A cui va aggiunto il comprensibile sgomento che serpeggia tra gli europei, dato che la loro ragione di risiedere a Londra sta nei rapporti con l’Europa e con il resto del mondo, che viene raggiunto meglio da qui che nelle città del continente. Londra ha la massa critica e le infrastrutture per sostenere tutto questo. In questi giorni si specula sulla fine che faranno i 300mila operatori della City se si troveranno in difficoltà a operare con il Continente. Le ipotesi si sprecano e si parla già di piani di contingenza da parte degli istituti di trasferire parte del personale tra Dublino, Francoforte, Parigi, Amsterdam. Nessuna delle città ha però le infrastrutture sufficienti, per cui una perdita secca per Londra si tramuterebbe solo in un guadagno parziale per le altre città, che non potranno diventare mai un polo alternativo.
Ed è qui che sta il dramma: il Brexit rischia infatti di mutilare la capitale senza portare beneficio ad alcuno, causando al contrario una diminuzione collettiva. Io sono tra quelli che pensano che, per quanto si siano mostrati temerari in questi giorni, gli inglesi non hanno un istinto suicida e cercheranno in qualche modo di salvare la capitale. Una megalopoli-laboratorio che stava vivendo un esperimento epocale, purtroppo uscito fuori controllo e subìto con crescente insofferenza dal resto degli inglesi, specie quelli che da questa crisi finanziaria non erano ancora usciti e hanno visto ridurre inesorabilmente i propri redditi reali. Che il Brexit segni l’inizio di un nuovo ciclo di svuotamento di Londra? Già entro un anno potremo vedere da che parte tira il vento. Ma una città proiettata sul mondo e cosmopolita come è, cercherà di vendere cara la pelle, escogitando nuove soluzioni per stare non solo a galla, ma sulla cresta dell’onda, dato che questa è la sua condanna. L’alternativa infatti non potrà che essere il declino.