Quando, nel 1993, divenni corrispondente a Londra per Il Sole 24 Ore, il nostro ufficio stava al piano terra del Financial Times nell’attuale palazzo di vetro scuro al n 1 di Southwark Bridge, dall’altra parte del Tamigi, antistante la City. Non ero l’unico corrispondente straniero ad abitare le fondamenta del prestigioso foglio rosa britannico che accomunava il mio giornale nel colore. C’erano anche gli uffici del quotidiano francese Les Echos, della Brasiliana Gazeta Mercantil, della redazione economica del tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung e del giapponese Nihon Keizai Shimbun, noto anche come Nikkei. Quello che colpiva noi colleghi occidentali era la quantità di gente che affollava l’ufficio del Nikkei. Col tempo, scopersi che su una dozzina di persone, solo due o tre erano giornalisti: gli altri svolgevano attività di supporto ai colleghi, dalle traduzioni, al monitoraggio dei media passando per varie funzioni amministrative. Vivevano in un loro mondo e tenevano i contatti con gli altri colleghi al minimo credo in massima parte per timidezza. Inutile dire che avevano una struttura piuttosto inefficiente, anche per un giornale che ai tempi vendeva 4milioni di copie. Il New York Times, principe della carta stampata, aveva a Londra quattro corrispondenti e una segretaria e il Wall Street Journal due o tre giornalisti anche se negli anni successivi é andato crescendo in un grande ufficio che accorpa anche l’agenzia Dow Jones che fa capo alla stessa proprietà, ora del gruppo Murdoch.
I colleghi del Nikkei furono i primi a lasciare l’edificio del FT. Poi, alcuni anni dopo, venne il turno dei tedeschi, dei brasiliani e infine dei francesi. Rimasi solo con un mio collega. Il nostro ufficio resistette ancora alcuni anni dopo la mia partenza nel 2008 fino a che arrivò anche il nostro turno e l’ufficio di Londra migrò nel vibrante quartiere di Farringdon. In profonda trasformazione il FT continuava a cambiare la logistica dei propri uffici, facendo prima spazio ai periodici e in seguito all’edizione online e video che mangiarono sempre più spazio. L’arrivo di internet e delle piattaforme digitali aveva rivoluzionato tutto. L’agenzia di stampa Reuters, cattedrale di imparzialità, con una governance blindata per garantirne l’indipendenza, cadde nel 2008 nelle mani del gruppo canadese Thomson che fa capo all’omonima famiglia. La concorrenza accanita dell’agenzia Bloomberg creata 30 anni fa dal geniale ex sindaco di New York, aveva costretto il colosso rivale, che pareva fino ad allora invincibile, a correre ai ripari.
Il mondo dei media ha subito trasformazioni tumultuose. Lavorarci è come stare in sella a un toro imbestialito in un rodeo. Tutto cambia, tutto è incerto e instabile. E le sorprese si succedono a ritmo accelerato. Mi aspetto ormai di tutto. Ma devo confessare che l’acquisizione del FT da parte del Nikkei era l’ultima cosa che avrei immaginato. Si sapeva che la Bloomberg aveva trattato per un acquisto, si pensava che Thomson Reuters avrebbe potuto diventare l’alveo naturale di un conglomerato economico britannico. Recentemente correva voce che i tedeschi del gruppo Springer, avevano mire ben precise. La mia prima reazione davanti a tale annuncio è stata evidentemente di disorientamento. Come conciliare una lingua che si esprime in ideogrammi, parlata da 130 milioni di persone con la lingua più parlata nel mondo che in comune ha solo poche espressioni anglicizzate?
A ben pensare la spiegazione è elementare, caro Watson, come diceva Sherlock Holmes al fido aiutante. I giapponesi hanno soltanto messo i soldi per prendere una piattaforma di informazione che ha bisogno di fondi per crescere e che altrimenti da un punto di vista del prodotto intellettuale si auto-sostiene. A questo punto per il FT la soluzione trovata è tutt’altro che eccentrica, dato che molto probabilmente i giapponesi saranno buoni proprietari e lasceranno lavorare i colleghi inglesi in piena autonomia per non rovinare la gallina dalle uova d’oro. Un po’ come e’ capitato con le banche Giapponesi a Londra col personale locale quando Nomura prese buona parte delle attività’ londinesi si Lehman Brothers. Insomma, per chi si attendeva un matrimonio di amore e di passione la delusione è grande. Questo infatti è un matrimonio di convenienza tra entità diverse in cui ognuno pensa di guadagnare. I giapponesi potranno aprirsi più sul mondo cercando di veicolare propri prodotti in inglese, mentre gli inglesi dovrebbero mantenere la loro autonomia editoriale e ottenere fondi freschi. L’abbinamento non è ovviamente perfetto, dal momento che sarà inevitabile accomodare due culture distanti come il giorno dalla notte. Chissà, forse un giorno i giapponesi si pentiranno e rivenderanno la piattaforma FT ad altri. E’ un fatto che il gruppo Pearson a cui l’FT fa capo non aveva più interesse a tenere in pancia un’azienda che contribuiva solo per il 3,3% degli utili. Concentrato sull’editoria dell’educazione e sempre più sul mercato USA, Pearson ha evidentemente altre ambizioni e tenere l’FT per motivi di prestigio non ha più senso. Anche se molti hanno ragionato al contrario, rilevando che vendere il FT in un momento in cui la casa madre sta perdendo colpi non è una buona idea. Ma è forse anche il motivo per cui ha scelto di fare cassa.
Dal deal con il Nikkei è rimato fuori il settimanale The Economist, di cui Pearson possiede il 50% e la restante parte è in mano a un gruppo di selezionati azionisti, di cui il maggiore è Sir Evelyn de Rothschild con il 22%, e altri blasonati come John Elkann, che possiede il 5% tramite la holding di famiglia Exor e le famiglie Cadbury e Schroder che potremmo definire i rappresentanti del salotto buono londinese. Lo stesso FT riferisce oggi che sono in corso trattative perché gli azionisti, a cui se ne aggiungerebbero altri, avrebbero intenzione di rilevare la restante parte del prestigioso settimanale. Il valore della quota restante è stimata in 400 milioni di sterline, il che valuta il settimanale quasi allo stesso livello degli 844 milioni che esborserà il Nikkei per il FT. Guardando agli utili è una valutazione bassa, dato che il settimanale e le attività ad esso collegate hanno prodotto lo scorso anno utili di 60 milioni di sterline rispetto ai 24 della galassia ruotante attorno al quotidiano. Questo ha però una proiezione molto più importante grazie a una vasta piattaforma di distribuzione.
La vita è comunque buffa. Quando il FT cambiò sede 32 anni fa passando da Bracken House, davanti a St Paul’s, all’attuale indirizzo, a rilevare il vecchio stabile fu proprio una finanziaria giapponese, che lo pagò a quei tempi una fortuna. Il prezzo fu così alto da permettere al FT di comprare la sede attuale al valore di un quinto. L’acquisizione del Nikkei di oggi non prevede che venga rilevato il nuovo stabile. Che i giapponesi lo ritengano sopravvalutato e non vogliano scottarsi con un immobile come i loro compatrioti tre decenni fa?