La svolta ultra-statalista del Cancelliere Sunak

L’inversione di rotta ideologica di 180 gradi dei conservatori alla Boris Johnson – potremmo chiamarli i New Tory, in simpatia con il defunto New Labour? – è completa. Il partito delle privatizzazioni, dello Stato leggerissimo, del primato del privato sul pubblico che ha fatto scuola per due decenni in Europa, ha gettato definitivamente alle ortiche convinzioni secolari, confermando con l’ultima finanziaria dedicata ai capitoli di spesa (spending review) una manovra di aumento delle tasse e della spesa pubblica che non si vedeva dagli anni ’50. Mentre il New Labour per farsi eleggere a fine anni ’90 aveva adottato politiche conservatrici, ora è il turno dei Tory di indossare i panni dello statalismo per restare al potere in un momento di emergenza dell’economia. Presentando la manovra, il Cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, ha ammesso che l’ondata statalista era inevitabile, considerando che la pandemia del Covid 19 ha costituito il peggiore shock per l’economia britannica degli ultimi 300 anni. Gran parte degli osservatori ha però rilevato che Sunak ha usato il Covid come pretesto per recuperare il terreno perduto dal 2010 al 2020 quando, sotto i Governi conservatori di David Cameron e Theresa May,  per recuperare dallo shock finanziario del 2008 a cui era seguita una potente manovra espansiva sotto i laburisti,  la spesa pubblica era stata fortemente tagliata, riducendo il welfare all’osso. Una strategia che ha indebolito il Paese e lo ha reso particolarmente vulnerabile in campo sanitario all’arrivo della pandemia. Sunak ha peraltro rispolverato il vecchio mantra, secondo cui  i conservatori sono i più competenti in economia, per cui sono i soli che possono dare la certezza di un ritorno alla morigerazione nei conti pubblici una volta passata l’emergenza. Secondo gli esperti, entro il 2024, anno delle prossime elezioni, il cancelliere si appresterebbe a preparare uno sgravio-contentino fiscale da 7 miliardi per provare il ritorno alla sobrietà, ma tutti ormai convengono che la presenza di uno Stato pesante, con un debito pubblico ormai all’85% del pil (rispetto al 40% nel 2007) sia ormai destinato a diventare la nuova norma.

Le spese in arrivo, da spalmare su sanità, scuole, prigioni, edilizia pubblica, saranno finanziate da un titanico aumento delle tasse da 40 miliardi di sterline (45 miliardi di euro) per l’esercizio 2022/3. Sunak ha previsto detrazioni per le fasce più basse della società che si trovano di fronte a anni di salari stagnanti e ora sotto la pressione di un aumento dell’inflazione, in particolare spinti al rincaro delle bollette del gas che nel Paese forniscono la massima parte del sistema di riscaldamento. L’inflazione, ormai al 3,1%, dovrebbe raggiungere il 4% nel 2022. Sunak si è difeso dicendo che le perturbazioni sulla catena delle forniture e lo shock energetico sono due elementi esogeni su cui il suo Governo, come quello di altri Paesi, possono poco, trovandosi ridotti a imbarcare inflazione. Le detrazioni per le fasce basse e l’aumento del salario minimo a 9,50 sterline l’ora (11 euro) sono un palliativo mentre per le classi medie la perdita di potere d’acquisto è reale dato che un  salario da 25.000 sterline l’anno  al netto delle tasse, secondo il think thank IFS (Institute for Fiscal Studies) in un calo reale dell’1% dei redditi annui. Secondo l’istituto, mediamente, da quando Johnson è al Governo, l’aumento delle tasse è stato di 3.000 sterline annue (3.500 euro) a famiglia. Il tutto peraltro viene ad aggiungersi a un periodo di crescita lenta, con le retribuzioni salariali in aumento reale del 2,4% tra il 2008 e il 2024, rispetto al 30% dal 1992 al 2007.  Ossia, si  è registrato un crollo del benessere sotto i conservatori (eccetto una parentesi laburista sotto Gordon Brown nel 2008-10) rispetto agli anni d’oro del decennio laburista di Blair e del quinquennio del conservatore John Major.

Certo, gli ultimi 15 anni sono stati funestati dalla crisi finanziaria e dalla pandemia, che hanno costituito due potenti shock. Il problema strutturale del Regno Unito rispetto agli altri grandi Pesi europei resta però quello di una produttività particolarmente bassa. A cui ora corrisponde una crescita particolarmente bassa dato che, dopo il rimbalzo del pil post-Covid previsto del 6,5% quest’anno e 6% nel prossimo, l’economia dovrebbe, secondo l’OBR, l’ente statistico indipendente che monitora l’economia britannica, crescere nel 2023 solo a un ritmo di crociera dell’1,3%.  Quello che è peggio,  è il danno di lungo termine della Brexit sull’economia che, secondo quanto dichiarato da Richard Hughes, responsabile del OBR, è quantificabile in una riduzione permanente del pil di 4% percentuali rispetto a quanto avrebbe dovuto essere senza l’uscita dalle UE. Le misure protezioniste del Governo Johnson sul mercato del lavoro, con il blocco della mano d’opera straniera poco qualificata (sotto le 30mila sterline annue di redditi) stanno peraltro creando forti carenze di personale che si ripercuotono sull’economia creando carenze di forniture e colli di bottiglia nella produzione. Johnson ha cercato di giocare il ruolo dell’uomo della provvidenza, dicendo che è ormai giunta l’ora di riqualificare la mano d’opera britannica per rilanciare la produttività e con essa i salari, invece di importare mano d’opera buon mercato. Esattamente l’opposto di quanto hanno perseguito per 35 anni i conservatori giocando sui liberi mercati delle merci e delle persone. Ora con la Brexit i Tory abiurano la loro dottrina e si scoprono protezionisti. Con decenni di ritardo rilanciano le scuole professionali e artigianali per riqualificare la propria man d’opera. Peccato che a giudicare dai primi risultati gli entusiasti che si presentano all’appello della riqualificazione siano uno sparuto drappello. Il rischio è quello che la produttività resti bassa mentre l’inflazione in aumento continui a erodere potere d’acquisto alla gente impoverendo il Paese.