Con una maggioranza bulgara di 521 voti a favore a fronte di 73 contrari la Camera dei Comuni ha dato ieri la benedizione finale alla Brexit confezionata dal Governo Johnson. Keir Starmer, leader dei laburisti ha infatti deciso di chinare il capo al Primo ministro e votare a favore, sostenendo che è meglio l’accordo minimo raggiunto con Bruxelles rispetto all’alternativa di un no deal che avrebbe trascinato il Paese in una grave crisi economica, magnificata dalla pandemia in corso. Avessero votato contro tutti compatti, i 200 laburisti in Parlamento non avrebbero comunque mai rovesciato il verdetto, dato che i Conservatori hanno una maggioranza di 80 seggi. Starmer ha voluto giocare in modo corretto dicendo che il suo voto è stato di principio e non strumentale, per il bene dell’interesse nazionale. Ha messo in chiaro che si tratta comunque di un pessimo accordo e che dal 1 gennaio il suo partito chiamerà Johnson a rendere conto di tutte le conseguenze negative di una Brexit che è stata partorita in casa Tory. Non tutti i suoi colleghi hanno condiviso la visione, dato che 36 si sono ribellati, astenendosi o votando contro, assieme a due conservatori (eurofobi) a tutti i liberaldemocratici, ai nazionalisti scozzesi, ai nazionalisti gallesi e ai partiti del Nord Irlanda. A conferma che la Brexit, all’interno del Regno Unito è fondamentalmente una questione inglese. E all’interno dell’Inghilterra è una scelta sostenuta dalle campagne e dal centro Nord contro Londra e il Sud Est, la parte più prospera del Paese.
Quanto abbia fatto bene Starmer sarà la storia a valutare. L’ex procuratore capo della Corona ha sempre voluto giocare la parte della persona competente e responsabile criticando Johnson sui fatti e scelte concrete, sulla competenza piuttosto che l’ideologia. I critici del suo voto accomodante sostengono però che la decisione depotenzierà inevitabilmente la forza critica del partito di opposizione e del suo leader, il quale, ogni volta che chiamerà Johnson a rendere conto delle conseguenze dell’accordo, potrà sentirsi dire di essere stato colluso col Governo, avendo votato a favore di una decisione storica.
Per Boris Johnson, che è entrato sul proscenio politico nella fase finale della battaglia per la Brexit, prendendo un treno in corsa e portando a conclusione una vicenda che sotto la guida di Theresa May si era incagliata in Parlamento, si tratta di un vero trionfo. Ricordiamo che, fino all’ultimo, nel 2016, in vista del referendum, Johnson non aveva deciso se sostenere il leave o il remain. E che la sera della vittoria al referendum aveva pronto il discorso della sconfitta di misura per venderla a peso d’oro all’interno del suo partito dove avrebbe comunque aumentato fortemente il proprio potere. La vittoria insperata come principale leader del fronte dei leaver gli ha aperto la strada per candidarsi alla successione della May per poi capitalizzare con elezioni lampo con una forte maggioranza in parlamento. Un vantaggio che gli ha permesso poi di piegare l’intero Paese alla sua linea, fino a incassare oggi anche il si laburista.
Mai come in questa occasione mi viene in mente il ragionamento leninista delle minoranze attive come motore della storia. Volontarismo storico di una elite rispetto alle masse statiche e a un marxismo passivo e determinista. Un attivismo con cui Lenin giustificava una rivoluzione che nella arretrata Russia zarista non rifletteva le condizioni marxiste necessarie per rovesciare la borghesia in Paesi più avanzati. Senza troppo scomodare gli antenati e in condizioni ben differenti vorrei ricordare che la Brexit nel 2016 fu votata da 17,4 milioni di inglesi pari al 51,9% dei 33,5 milioni di votanti, a loro volta pari al 72% dei 46,5 milioni aventi diritto al voto ossia il 68% dei 68 milioni di cittadini britannici. In altre parole, e in estrema sintesi, la Brexit è stata decisa dal 37% degli aventi diritto di voto, pari al 26% della popolazione britannica, in gran parte ( 2/3) composta da elettori conservatori e in minor parte (1/5) laburisti. L’abilità dei conservatori è stata di mantenere l’iniziativa e la gestione delle conseguenze del referendum all’interno del partito di Governo, senza mai concedere un dialogo agli altri partiti, tagliando così fuori quasi metà degli elettori contrari. Così i sostenitori del remain, che prima del 2016 avevano una rappresentanza in Parlamento di oltre il 60% dei deputati, ieri si è trovata rappresentata da poco più del 15%. A cui vanno aggiunti i 4 milioni di cittadini UE che risiedono nel Regno Unito e che si sono visti passare la scelta sopra la testa. Quanto ai Brexiter convinti, inizialmente poco più di un terzo dei deputati conservatori, essi sono riusciti oggi, tramite un enorme effetto leva esercitato da Johnson, a ottenere l’88% dei consensi a Westminster. Ironicamente, peraltro, secondo un sondaggio condotto giorni fa tra l’elettorato britannico dalla società demoscopica You Gov, il 49% degli interpellati ha detto che, vista col senno di poi, la Brexit è stata una scelta sbagliata, a fronte di un 40% di favorevoli.
Il desiderio di tutti è ora di mettere le divisioni alle spalle. Gli inglesi hanno uno spirito positivo a volte tinto da fatalismo e hanno deciso di guardare avanti e non recriminare e partire dalla realtà quale si presenta ora. Dal 1 gennaio inizia l’esame dettato dal principio di realtà, dato che la Brexit sarà finalmente reale. Vedremo il Regno Unito prosperare in modo esplosivo come hanno sostenuto in questi giorni i rappresentanti del Governo, impantanarsi immediatamente davanti a centinaia di imprevisti e contrattempi che la Brexit causerà all’economia britannica o tutto filerà relativamente liscio, con un declino lento , non doloroso, ma inarrestabile o il Paese liberato dal giogo di Bruxelles si alzerà in volo verso la stratosfera? Sarà uno dei più interessanti quiz del 2021.