Ci sono momenti nella storia di una nazione in cui una serie di circostanze sfortunate si intreccia con leader incapaci che le cavalcano con esito fatale. E’ quanto sta succedendo nel Regno Unito, dove un uomo come Boris Johnson, pirotecnico nel lessico e abile nella tattica quanto incapace di grande visione politica ed economica, vincerà a mani basse queste elezioni pre-natalizie grazie a una manifesta inadeguatezza degli oppositori. A giudicare infatti da un recente sondaggio You Gov, infatti, Boris dovrebbe ottenere una comoda maggioranza di 68 seggi a quota 359 (da 317 vinti nel 2017 scesi ora a 298 con le defezioni), uno dei più solidi risultati del dopoguerra, mentre Jeremy Corbyn registrerebbe un crollo di 51 seggi a 211, uno dei minimi del partito del dopoguerra, e i liberaldemocratici di Jo Swinson un guadagno di un solo seggio a quota 13 (da 12 del 2017), mentre i nazionalisti scozzesi otterrebbero 43 dei 59 seggi in palio nella regione a nord del Vallo Adriano, rispetto ai 35 attuali.
Cominciamo con Jo Swinson, leader dei liberaldemocratici. La giovane politica è la persona sbagliata al posto giusto, nel senso che ha il vantaggio di trovarsi al centro dello scacchiere politico dove si possono raccogliere i voti moderati. Si sta dimostrando incapace di sfruttare la fortunata mano di carte che le offre la storia trovandosi di fronte a due partiti di governo che sono diventati estremisti. Swinson, che può fare appello ai suoi coetanei, che non si riconoscono in massima parte né nei conservatori (un partito con poco più di 100mila iscritti con quasi nessun giovane) né in buona parte con i laburisti, rischia non solo di perdere i nuovi 8 acquisti di parlamentari giunti recentemente con le defezioni di Tory e laburisti, ma neppure alcuno dei 24 indipendenti, che a loro volta hanno lasciato in massima parte la casa dei Tory senza avere deciso di affiliarsi ad alcuno dei due grandi partiti di opposizione. Risultato: l’aumento di un seggio rispetto alle elezioni del 2017 si traduce nella realtà in un crollo di 7 seggi rispetto ai 20 attuali accumulati con le defezioni di parlamentari dal partito conservatore e laburista, dunque una perdita secca. La Swinson cavalca temi giusti, cari alla massima parte dell’elettorato, come la necessità di aumentare sostanzialmente la spesa ambientale, quella sociale, le scuole e la sanità, su cui i conservatori avevano stretto un forte giro di vite e ora essi stessi hanno fatto inversione a U. Dall’attuale rapporto del 38,4% della spesa sul pil ereditato da Theresa May, i loro progetti aumenterebbero la spesa al 39,4%, una bazzeccola rispetto a Paesi come la stessa Germania (45%) l’Italia (48%) o addirittura la Francia (56%). Il loro finanziamento delle tasse in modo settoriale, come la tassa sui voli aerei per finanziare la lotta al cambiamento climatico, o quelle sul business per pagare l’assistenza sociale ai bambini e le scuole, non convincono però gli economisti, dato che mancate entrate settoriali rischiano di affossare gli impegni presi settorialmente. Per quanto dunque i Lib Dem abbiano una politica più chiara dei rivali nel finanziamento delle spese, la loro politica non convince. L’aspetto più letale della scelta della Swinson è stata però l’annuncio di voler cancellare la Brexit lo stesso giorno di una sua eventuale vittoria elettorale. Questa scelta è autolesionista, dato che esiste un largo consenso nel Paese, anche da parte di molti remainer, di onorare il referendum del 2016 ed eventualmente porre la questione agli elettori in un nuovo referendum, tema che i libdem avevano finora condiviso. Questa fuga in avanti, che nega il referendum del 2016, pare una chiamata a serrare le righe tra i Talibani del remain piuttosto che una ricerca di allargamento del consenso nel Paese verso il centro. La decisione poi di escludere qualsiasi accordo di Governo col Labour finché Corbyn sarà alla guida, rende ancora più rigida e isolata la strategia della Swinson che dalla sua peraltro non ha le qualità di un capo carismatico che possa fare appello al Paese con la propria personalità. Il voto tattico chiesto agli elettori da parte dei libdem, verdi e tory di sinistra per avanzare candidati del remain deve ancora dimostrare di beneficiare il partito dal vessillo giallo.
Vengono poi i laburisti, che cavalcano un programma economico di spesa così elevato non solo da mettere gli economisti in dubbio sulla loro capacità di raccogliere tasse ed emettere debito sufficienti per sostenere la spesa preventivata ma, peggio ancora, li mettono in allarme dato che, ammesso e non concesso che il danaro venga reperito, non credono che l’economia britannica possa essere in grado di assorbirle, tanto meno nel settore pubblico e comunque nella fase iniziale. I progetti di Corbyn porterebbero il rapporto tra spesa e pil al 43,3%, relativamente poco in termini assoluti, dato che saremmo ancora sensibilmente al di sotto della Germania, che è uno dei Paesi europei più virtuosi, ma per la natura quantitativa di un aumento di 83 miliardi di sterline della spesa corrente (quasi 100miliardi di euro) nella legislatura (5 anni) questi non paiono credibili a think tank come il prestigioso IFS (Institute for Fiscal Studies) secondo cui sarebbero impossibili entro l’arco della legislatura. Le nazionalizzazioni di Corbyn, l’aumento delle tasse individuali già al di sopra di redditi di 85mila sterline lorde annue, tutto sommato moderati, e forti prelievi sulle aziende hanno peraltro creato uno stato di pre allarme nel mondo del business che potrebbe trasformarsi in panico e un crollo della sterlina nel caso di una vittoria del Labour party.
Secondo l’IFS, per la ragione opposta. non sono credibili neppure i programmi dei conservatori, che promettono di contenere la spesa entro il 38,5% del Pil (per raffronto gli USA sono al 36%) dato che date le promesse su sanità e infrastrutture, accrescerebbero la spesa dei Tory già il prossimo anno di 27 miliardi rispetto al manifesto del 2017, a livelli simili del manifesto laburista del 2017. In una lunga e controversa intervista alla BBC domenica 1 dicembre Boris Johnson ha sostanzialmente sconfessato 10 anni di austerità dei predecessori, ribadendo di essere pronto a spendere in modo sostanziale in sanità, educazione e ordine pubblico. Settori che per anni avevano subito la scure all’insegna dell’efficienza ma che ora vengono riabilitati. Insomma, con i rischi della Brexit da tamponare, una rincorsa preventiva alla spesa pare inevitabile da parte di tutti i partiti per tenere buoni gli elettori.
L’aspetto politico pare però allo stato quello che conta di più. Boris Johnson non si dà infatti neppure più la pensa di spiegare i benefici che lui vede nella Brexit ma ha spostato l’enfasi sul solo tema di realizzare la Brexit con lo slogan mantra get brexit done. E questo tema pare funzionare, dato che una grande parte della popolazione è ormai psicologicamente esausta ed è pronta a lasciare la UE solo perché tre anni e mezzo fa in tutt’altre condizioni era stato deciso di farlo. I laburisti peraltro mantengono una posizione ambigua, che fa perder loro soltanto voti (in alcuni collegi a favore dei Tory) dato che se vincessero vorrebbero rinegoziarla in termini più vicini alla UE e poi mettere la loro proposta al voto referendario con l’alternativa di rimanere nella UE. Una storia troppo complicata che diverge nettamente dalla scelta dei liberaldemocratici mettendo entrambi i partiti nell’impossibilità di adottare una linea comune che potrebbe essere condivisa da chi è contrario alla Brexit.
Così, per l’incapacità dell’opposizione e in virtù della determinazione di Johnson di tirare dritto con un messaggio semplice, il Regno Unito confermerà il proprio sostegno a un nuovo partito conservatore, nettamente orientato a destra, al punto da aver fatto terra bruciata attorno a Nigel Farage, che i sondaggi vedono incapace di dare al suo Brexit Party un solo seggio alla Camera dei Comuni. Gli osservatori si domandano che avverrà all’indomani della vittoria di Johnson, che promette di portare a termine il negoziato sui nuovi rapporti con la UE entro fine 2020 mentre nessuno crede sia tecnicamente possibile. Il che alimenterebbe nuovamente la eventualità di una pericolosa hard brexit per impossibilità di stare nei tempi tecnici della scadenza finale alla fine del prossimo anno. Per ora i mercati quella incertezza non la hanno messa in conto, forse puntando su nuovi rinvii che potrebbe concedere Bruxelles. Intanto, il solido margine di Johnson ha dato fiducia ai mercati, con un recupero della sterlina a 1,17 euro e 1,29 dollari. D’altronde, rispetto a una Brexit per quanto avventata di Boris, davanti a una vittoria impossibile dei liberaldemocratici e allo scampato pericolo di una presa di potere di un partito paleosocialista, i mercati hanno festeggiato il sondaggio You Gov. Non è una prospettiva gloriosa, ma dati i tempi che corrono e la modestia dei politici in circolazione, la scelta è sul male minore. Peraltro, dato che Boris non ha una visione propria, ma è soltanto un abile tattico, una volta al Governo, sconfitti Farage a destra e Corbyn a sinistra, potrebbe nuovamente cambiare direzione secondo convenienza, andando più a sinistra sulla spesa come prevede il IFS. Tra due settimane avremo la risposta.