Perché la Brexit è stata uno tsunami di scelte sbagliate

Come si è potuti finire così male, con il rischio di un’uscita dalla UE il 12 aprile con un tuffo doppio carpiato dalle scogliere di Dover? Col senno di poi non poteva essere diversamente, anche se per poterlo affermare abbiamo dovuto aspettare venerdì l’ultima puntata della saga, per assistere all’ultima mossa sbagliata nel momento sbagliato con la terza bocciatura della proposta del Governo May. Ora che siamo davanti al precipizio, possiamo concederci uno sguardo all’indietro e accorgerci che il bel Bus Routemaster rosso a 2 piani tanto caro ai tradizionalisti è riuscito a imboccare tutte le strade sbagliate nel momento sbagliato.  La Brexit è stata una tragicommedia recitata da pessimi attori nel teatro sbagliato nell’orario sbagliato. Una performance dell’assurdo, che solo una classe politica che ha mostrato una rara incompetenza, alla faccia di chi ancora pensava che questa fosse la migliore classe dirigente europea, poteva garantire davanti a un pubblico impreparato e distratto.

Cerchiamo di semplificare e andare con ordine per permettere una facile comprensione. David Cameron, per compattare un partito conservatore sempre più riottoso, mette nel programma elettorale delle elezioni del 2015 la promessa di un referendum sull’adesione alla UE. Forte della scommessa vinta nel 2014 con il referendum scozzese e di sondaggi che danno i favorevoli all’Europa in netto vantaggio (quasi il 60%) rispetto a quelli che vogliono andarsene, Cameron si gioca ai dadi il futuro del Paese. E’ convinto che, se riesce a strappare qualche altro privilegio a Bruxelles, potrà convincere il pubblico di rimanere nella UE e chiudere la partita con i conservatori euroscettici, spina nel fianco pluridecennale. Potrebbe passare alla storia come l’uomo che ha messo una pietra tombale sulla questione europea. Non prende in considerazione per impossibilità o per incuria cinque fatti 1) da decenni i media inglesi, specie i tabloid popolari in mano a eurofobi stranieri come l’americano-australiano Rupert Murdoch (The Sun, The Times) o i fratelli Barclay (The Daily Telegraph) che vivono su un’isoletta offshore del Canale o il potente Lord Rothemere (Daily Mail) ignorano o scrivono solo cose negative sull’Europa, che viene additata come causa di ogni male: un blocco semi-socialista in mano a burocrati non eletti che soffoca lo spirito d’iniziativa e l’amore per la libertà del popolo britannico. 2) gli scozzesi sono sempre stati filoeuropei e detestano i conservatori, specialmente dai tempi di Margaret Thatcher che ha distrutto l’industria della regione. Possono essere un buon alleato se vincesse il si, ma potrebbero rivoltarsi contro se vinceranno i no, minacciando nuovamente l’unità nazionale. 3) I giovani, che sono in grande maggioranza filoeuropei, danno la UE come scontata e non pensano di andare a votare per difendere i propri diritti. 4) Dopo le elezioni del 2015, perse dal leader laburista Ed Miliband, sarebbe giunto pochi mesi dopo alla guida del partito Jeremy Corbyn, un paleo-socialista che sulla UE è sempre stato freddo, votando contro vari trattati, considerandola come una macchinazione capitalista. 5) Il Regno Unito non ha una costituzione scritta e, a differenza di molti Paesi come l’Italia, che non prevede che i complessi trattati internazionali siano oggetto di referendum o l’Olanda, che su materie importanti prevede un quorum elevato, davanti a una vittoria risicata di uno schieramento su un tema così cruciale, rischia la spaccatura in due del Paese. Cameron, con spirito cavalier, come dicono gli inglesi, ossia, superficiale e sufficiente, tipico di molti arroganti ex-alunni etoniani o oxfordiani della classe dirigente (come l’amico Boris Johnson o Jacob Rees Mogg per citarne un paio), tira dritto sul referendum. Ultimo errore fatale: difendere una situazione acquisita, complessa e noiosa come l’Europa, da una bordata di critiche di media eurofobi agguerriti che la descrivono da sempre come causa di ogni male, si rivela un’impresa impossibile, anche perché gli stessi eurofili, in tutti questi anni, per evitare l’impopolarità, hanno raramente elogiato la UE. Questa conversione tardiva dei fautori del remain non convince la gente. La Brexit passa 51,9% a 48,1%.

Così, il 23 giugno del 2016,  il 27% della popolazione (di 65 milioni), o meglio il 37% degli aventi diritto di voto, ossia 17,4 milioni di elettori su un totale di 46,5 milioni, vota, con una lieve maggioranza, per lasciare la UE. La decisione è uno shock per gli stessi promotori della Brexit, tanto è vero che uno dei leader, Boris Johnson, si dice che avesse pronto il discorso della sconfitta (di misura, da rivendersi nel suo partito per acquisire più potere) e che avesse dovuto in tutta fretta cambiare lo spartito. La vittoria è uno shock per i parlamentari, che sono oltre il 60% dei remainers. E’ uno shock per il mondo dell’industria e della finanza, che sa che l’economia del Paese subirà un danno strutturale, per le istituzioni internazionali, che si trovano di fronte a un cambiamento dei rapporti di forza in Europa con implicazioni ancora più ampie su scala mondiale. Cameron molla indegnamente il mazzo a Theresa May, una tiepida remainer , donna onesta e integra, ma nota per essere estremamente cocciuta, maniaca del controllo fino alla prepotenza e senza una grande visione. I conservatori, lacerati (con la maggioranza dei parlamentari anti-Brexit), si affidano alla May per mantenere la disciplina interna e gestire il negoziato con Bruxelles. Londra sa che una vera Brexit avrebbe conseguenze devastanti per l’economa britannica. Non lo dice solo la grande maggioranza degli economisti o dei vituperati “esperti” ma lo reclama a viva voce il mondo del lavoro con Confindustria e sindacati britannici per una volta assieme dalla stessa parte della barricata. La May, dopo avere detto che Brexit means Brexit, una definizione che diventa un mantra senza senso, dato che ancora oggi nessuno è ancora riuscito a valutarne appieno le implicazioni, si inventa allo stesso tempo il concetto di soft Brexit , ossia una Brexit morbida, che permetta una uscita ordinata dalla UE, allo stesso tempo mantenendo i legami essenziali con l’Unione. Per ottenere più potere nel partito e rafforzare la mano nel negoziato, la May compie il fatale errore di indire nuove elezioni nel 2017, da cui esce bastonata, con una maggioranza garantita dai 10 Unionisti dell’Ulster che la ricatteranno, mentre il socialista Corbyn cresce. La May compie anche l’errore di dare una scadenza al 29 marzo 2019 allo scattare dell’art 50 dei Trattati UE  che prevede i termini di uscita di un Paese membro. Evidentemente vuole provare a tutti i costi di non avere intenzione di traccheggiare e implementare seriamente la Brexit. Indebolita dalle elezioni, è ancora più preda della destra eurofoba del partito. Invece di domarla, concludendo un’ampia alleanza con l’opposizione che avrebbe diluito gli eurofobi, la May mantiene il negoziato entro le mura del partito di Governo, restando alla merce’ dei duri della Brexit. Scontenta cosi i Tory eurofobi e l’opposizione, specie laburista, a cui viene negata una voce in capitolo. Questi le voteranno regolarmente contro. Mai il 51% di voti di una vittoria viene fatto pesare in modo così forte.

Convinta che non ci sia alcuna alternativa alla sua ricetta, la May, con l’ostinazione di un picchio meccanico che batte contro un albero, mette varie volte al voto la propria proposta, uscendone sconfitta, oltre che dall’opposizione, da molti suoi compagni di partito . Daniel Hannan, parlamentare conservatore europeo e uno degli eurofobi di punta sostenitori della hard Brexit, ha messo candidamente in chiaro recentemente che, se la Brexit fosse stata gestita da un premier tory euroscettico, che riconosceva all’altra meta’ del Paese l’onore delle armi e avesse negoziato abilmente con i laburisti un’ampia intesa,  ora la Brexit sarebbe passata comunque in versione più morbida rispetto al rischio di hard Brexit che abbiamo davanti. Aggiungendo che la May avrebbe potuto anche prendere piu’ tempo per attivare l’art 50 e garantirsi dunque una Brexit realizzabile. Detta da un rivale accanito della May, è un’affermazione che fa riflettere sulla poca abilità politica del Primo Ministro.

Morale: oggi il Paese è spaccato in due, con i leavers furibondi e decisi a fare passare la Brexit a ogni costo per motivi di orgoglio data la promessa tradita. La tattica della May, perché di strategia non si può parlare, invece che a un’intesa, ha portato quindi a una più profonda divisione del Paese, che rischia di durare per anni. Il Parlamento non sa che pesci pigliare, il 12 aprile incombe come pure incombono le elezioni europee. Un esercizio teorico dei conservatori nato da un’insofferenza, un prurito nei confronti di una UE che peraltro sul Regno Unito non aveva grande influenza politica, date tutte le esenzioni ottenute da Londra, si sta ora rivelando un incubo. Ogni giorno si scopre uno strato di legami sedimentati con la UE difficili da districare, che nessuno aveva potuto inizialmente prevedere. Se è vero che un secondo referendum potrebbe avere conseguenze gravi sul piano della credibilità democratica nei confronti di un elettorato che si sente gabbato, è anche vero che una Brexit pura e dura rischia di produrre danni economici devastanti, a cui comunque seguirebbero inevitabilmente gravi danni politici in seconda battuta. Una tragica storia, mal concepita e male eseguita con circostanze create a tavolino da una decisione (di David Cameron) che ha avuto l’effetto di una valanga.

 

 

  • Giampiero Minelli |

    Non c’è niente da difendere nei confronti dei 17,4 milioni di cittadini che nel 2016 hanno “consigliato” al governo nel 2016 di “uscire dalla UE”. C’è solamente da accusare di cecità politica, di malafede, di antidemocrazia, di incapacità addirittura superiore a quella del nostro s-governo grilleghino, chi in Gran Bretagna, dalla Regina in giu’ (lei per prima), la primo ministro, la Camera dei Lord, il Parlamento, i media, la Chiesa anglicana, insiste a voler estirpare la Gran Bretagna (67 milioni di cittadini) dall’Europa.
    Una autentica bestialità storica.

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