Un leader per un Regno Disunito

Scozia ed Europa, Europa e Scozia. Superata la prova delle elezioni sulle ali della ripresa economica, il banco di prova per David Cameron si giocherà ora contemporaneamente sue due fronti: garantire l’unità nazionale, concedendo il più possibile ai nazionalisti scozzesi senza creare risentimento tra gli inglesi, e garantire una coabitazione britannica in Europa che sia accettata dalla crescente legione di euroscettici, specie all’interno del suo partito, che chiedono di abbandonare l’Europa. La sfida è importante ma, giocata con abilità, potrebbe riuscire a un leader che ha provato di sapersi muovere su più piani, sconfiggendo contemporaneamente su tre fronti i tre maggiori rivali politici: il laburista Ed Miliband, il liberal-democratico Nick Clegg e il nazionalista ingese Nigel Farage.

La vittoria elettorale di Cameron ha sanzionato un trend che era ormai diventato sempre più evidente. I conservatori sono oggi i signori incontrastati dell’Inghilterra, ora che i laburisti sono rimasti a loro volta con un solo seggio al di là del Vallo Adriano, come gli altri due maggiori partiti. Con una differenza: che ai nazionalisti scozzesi, i tories non vanno proprio giù. Nicola Sturgeon, leader vittoriosa del SNP, aveva infatti messo in chiaro di essere pronta a passare accordi con i laburisti pur di tener fuori i conservatori da Downing Street. Di chiaro stampo socialista e assistenzialista, il SNP vede nei tories, dai tempi della Thatcher, il grande nemico ideologico, di cui non sopporta la matrice liberista, malgrado la sterzata verso il centro di Cameron in questi anni. A prima vista siamo dunque nello scenario peggiore e ci troviamo, all’indomani del voto, in una situazione da separati in casa. La Sturgeon ha già messo in chiaro che vuole mettere subito fine alle politiche di austerità. Un netto avvertimento al partito di Governo uscente/rientrante che non ha fatto mistero che per il Paese si prepara una nuova dos di rigore per rimettere in ordine i conti pubblici.

Dopo il referendum scozzese del 2014, in cui i nazionalisti hanno perso con un robusto 45% dei suffragi, Cameron aveva accettato di concedere una nuova massiccia dose di autonomia alla Scozia. Dato che i sondaggi (ma saranno da credere, dati i precedenti?) danno oggi agli indipendentisti la maggioranza, anche se un nuovo referendum non è all’orizzonte, per Cameron è dunque necessario gettare le basi per una convivenza articolata con i cugini del nord, per evitare una guerriglia in Parlamento da parte dei 56 deputati nazionalisti. Sarà un gioco di delicati equilibri, dal momento che non deve aumentare il risentimento degli inglesi, su cui Farage ha fatto leva. Gli inglesi lamentano infatti di dover mantenere gli scozzesi con robusti trasferimenti e, soprattutto, da quando la Scozia ha un proprio parlamento con ampia autonomia legislativa, tollerano sempre meno che i 59 deputati del Nord eletti col 5% dei voti abbiano voce in capitolo sulle politiche nazionali, mentre gli inglesi non possono dire la loro sui cugini del nord. Maggiore autonomia rischia di portare maggiore risentimento. Cameron ha varie volte accennato alla possibilità di dare più autonomia agli inglesi, ma non sarà facile, dato che l’argomento sfida la logica, poiché normalmente l’autonomia la si dà alle minoranze e non alle maggioranze: gli scozzesi sono infatti 5,3 milioni mentre gli inglesi sono 53milioni, dieci volte tanto (oltre a 3 milioni i gallesi, per la cronaca). A questo punto, tanto vale trarne le conseguenze e dare vita a uno Stato federale. Ma   ciò rivoluzionerebbe completamente Westminster. Sarà quindi una partita dura, con profonde implicazioni costituzionali, da giocare di corsa mentre si deve continuare a governare il paese.

Gli Scozzesi, oltre a essere di sinistra, sono anche in maggioranza filoeuropei. Un altro motivo di profondo disaccordo con i tories che, in grande maggioranza, vogliono rivedere radicalmente i rapporti con la UE, pena la fuoriuscita dall’Unione. Farage su questo tema ci ha fatto campagna ottenendo 3,8 milioni di voti. Almeno 7/8 degli 11 milioni di elettori conservatori la pensa allo stesso modo. Risultato: a destra almeno 12 milioni di persone è anti-europea su un totale di 30milioni che hanno votato. Anche a sinistra ci sono peraltro degli euroscettici. Risultato: oltre il 40% degli elettori è antieuropeista convinto. I media di opinione sono in massima parte in mano ad anti-europeisti e soffiano sul fuoco da anni. La UE, con i problemi della Grecia e il pessimo andamento dell’economia continentale, Germania ovviamente esclusa, non fa nulla per mostrarsi attraente. E i mille lacci e laccioli della burocrazia, le protezioni, le rigidità dei mercati e, soprattutto, la mancanza di rappresentatività democratica, non piacciono comunque alla grande maggioranza degli elettori inglesi.

Cameron, in queste condizioni, ha giocato le proprie carte abilmente, con una strategia in due stadi:  cercare di negoziare con Bruxelles condizioni migliori per ottener più libertà d’azione per il suo paese e allo stesso tempo chiedere al Bruxelles di convergere di più verso Londra, introducendo sempre più flessibilità e concorrenza . Il secondo stadio è la promessa, entro il 2017, a metà legislatura, di indire un referendum sull’appartenenza alla UE. Se Cameron riuscirà a negoziare un accordo con Bruxelles che reputa favorevole potrebbe raccomandare di votare sì al referendum, altrimenti potrebbe rimanere neutrale o addirittura diventare ostile. Con la Scozia il referendum, da molti definito temerario, ha funzionato, dato che è stato vinto dal Governo, anche al costo di creare nuovi problemi. Formalmente, però, la questione è stata accantonata. Con la UE, lo schema si potrebbe ripetere, anche se, nel caso il sì passasse, i contrari continueranno a contestare. Se il buongiorno si vede dal mattino, va detto che a favore di una a situazione meno di emergenza sulla UE gioca il fatto che l’UKIP di Farage con un solo deputato potrà esercitare una pressione nulla in Parlamento. I deputati conservatori più eurofobi, di fronte al calo di pressione esterno dell’Ukip, hanno a loro volta dichiarato di essere pronti ad aspettare di votare fino a ridosso del 2017 per dare tempo a Cameron di trovare una via d’uscita.

Il gioco di Cameron sta dunque nel tirare la corda senza romperla. Se infatti si arrivasse a un’uscita del Regno Unito dalla UE, gli scozzesi potrebbero invocare un radicale cambiamento delle condizioni originarie del loro voto referendario e invocarne uno nuovo per uscire dal Regno Unito e rimanere nella UE. A questo punto tutto il quadro politico entrerebbe in convulsione. Ora di allora, però, alcune cose potrebbero cambiare, come l’economia europea, che potrebbe ripartire e rendere la UE più appetibile, sempre a patto che dia segno di riformare le istituzioni. Ma su questo fronte ci sono segnali incoraggianti, dato che la stessa Angela Merkel ha interesse a tenere Londra dalla sua parte, poiché ha già un sacco di gatte da pelare con la Grecia e per certi versi il club mediterraneo dell’euro.

Si aprono scenari interessanti. Per ora, ciò che conta è che la vittoria di Cameron ha garantito stabilità politica la Regno Unito, permettendo la leader britannico di tirare il fiato e affrontare le sfide future senza il senso di emergenza e di impotenza che sarebbe stato generato da un governo di coalizione con la spada di Damocle dei nazionalisti eurofobi di Farage. La partita resta comunque tutta da giocare.