Uno stallo “anglosassone” per l’economia inglese

Fine dell'anno, tempo di bilanci. Per gli inglesi il bilancio è negativo. L'economia, per quanto dotata di un mercato del lavoro flessibile, di una leva monetaria intatta, dato che la sterlina è rimasta fieramente al di fuori dall'euro, va male. Infatti va peggio di molti altri Paesi europei se si escludono quelli mediterranei. Flessibilità, apertura totale del mercato e controllo della moneta attraverso la possibilità di svalutare dovevano essere gli ingredienti vincenti che avrebbero permesso ai britannici di tirarsi fuori dalla crisi meglio dei cugini europei.  Invece, i tedeschi sono stati un esempio di virtuosità, seguiti dagli olandesi, dai Paesi nordici (la Svezia è cresciuta mediamente del 2,5% negli ultimi due anni) e della Svizzera. Casi diversi, indipendentemente dal fatto che fossero legati o meno all'area euro. Quest'anno la crescita britannica dovrebbe rasentare lo 0. Colpa del modello anglosassone che ha fatto solo finanza e si è caricato di debiti? Si e no, a giudicare dall'economia americana, che cresce a un ritmo compreso tra il 2 e il 3%. Allora? Che cosa non va oltre la Manica, dato che all'inizio dell'anno l'economia britannica si è tuffata, per quanto lievemente, in una seconda recessione e dopo il rimbalzo del terzo trimestre ora rischia di esibirsi in un terzo tuffo? Certo, gli USA sono un Paese enorme, pieno di risorse, ora liberate esponenzialmente con nuovi strumenti tecnologici come la trivellazione a grandi profondità e il cosiddetto fracking delle rocce per estrarre gas. Hanno ancora, per quanto assai ridotta, una grande industria manufatturiera. 

Gli inglesi, che hanno puntato tutte le carte su una economia post-industriale fatta di finanza e informazione, servizi e consulenza, software e media, insomma tutto quello che Tony Blair ha additato come strada maestra sotto il nome di economia della conoscenza si trovano particolarmente ammaccati. Certo, la Gran Bretagna conserva ancora importanti industrie nella farmaceutica, energia, alimentare, materie prime, difesa e logistica, per non parlare dell'auto che grazie a giapponesi e indiani produce ormai piu' dell'Italia. Fuori dalla capitale, che continua a tenere botta grazie alla forte diversificazione e cosmopolitismo, le altre città inglesi soffrono pero' fortemente a causa del declino dei settori tradizionali. Il Paese non genera occupazione, dato che i tagli ai dipendenti pubblici sono a malapena stati assorbiti dal settore privato senza che nuovi posti netti siano creati. Il ridimensionamento della finanza, che rischia di essere di lungo termine, se non permanente in alcuni campi, obbliga gli inglesi a ripensare il proprio modello. L'apertura al mondo che ha permesso di attrarre forti investimenti dall'estero, sta ora mostrando aspetti di vulnerabilità laddove grandi gruppi esteri comprano società britanniche senza contropartite sufficienti. Il posizionamento sull'economia della conoscenza ha dato frutti ma non puo' permettere al paese un vantaggio competitivo che non sia di breve termine dato che è solo questione di tempo e internet sarà usato da tutti, ottimizzando le risorse di ogni altro Paese. Finora gli inglesi hanno saputo giocare con abilità sulle proprie risorse intellettuali sfruttando le proprie Università, think tank e centri di ricerca. Ma queste si concentrano ad alto livello, mentre il livello di educazione inferiore è assai più arretrato di quello degli altri Paesi avanzati. Troppo anglo e poco sassone, come avrebbe dovuto essere sulla scia dei vicini tedeschi, l'economia britannica è in crisi di identità e in cerca a propria volta di un modello….