Il dilemma dell’imigrazione in Gran Bretagna: quando troppo è troppo poco…

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La riduzione dell'immigrazione è stato uno dei cavalli di battaglia dei conservatori durante l'ultima campagna elettorale. Un leit-motiv a cui i partner liberaldemocratici si sono dovuti adattare a fatica sull'onda di un crescente malessere dell'elettorato. Ancor più a fatica si è dovuto adattare il sindaco di Londra, Boris Johnson, che non ha mancato di rilevare il contributo che gli immigrati portano all'economia della capitale. Una posizione fatta propria dagli organismi imprenditoriali che hanno bisogno di mano d'opera qualificata e flessibile per le aziende. Siamo di fronte a una situazione che ricorda il cane che si morde la coda: da un lato il Governo promuove un'economia aperta per lottare contro gli impulsi protezionistici, ma dall'altro vuole ridurre fortemente il flusso di immigrati che a loro detta era fuori controllo sotto il Governo laburista. D'altra parte vuole spingere al lavoro la legione di persone che oggi vive di sicurezza sociale e che paradossalmente,  è sostenuta dal danaro pubblico finanziato in parte con le tasse pagate dagli immigrati, molti dei quali sono assai più qualificati e desiderosi di lavorare di coloro che vivono a spese dei contribuenti con i sussidi di disoccupazione.


 Gli immigrati indesiderati di cui parliamo sono gli extraeuropei, dal momento che i cittadini Ue hanno diritto a stabilirsi e lavorare in Gran Bretagna in base alla libera circolazione delle persone all'interno della Ue. Ma come fare per volere e non volere allo stesso tempo la preziosa mano d'opera extraeuropea? Ricordiamo che tra il 2000 e il 2008 prima del crash finanziario ben 5 milioni di immigrati (europei e non) sono giunti in Gran Bretagna sulle ali di un boom economico che pareva senza fine. Un flusso che ha ricevuto dal 2004 una ulteriore spinta per l'arrivo degli Est Europei dai Paesi di nuovo accesso. Il ritmo era frenetico e tra immigrati ed emigrati il saldo netto dei nuovi residenti per oltre 12 mesi si era tradotto in un influsso netto medio di 200mila persone all'anno. Con la crisi nel 2008 il flusso è crollato. I conservatori hanno come obiettivo quello di ridurre il flusso annuo da 200mila a qualche decina di migliaia. Ma dal 2009 il saldo netto è tornato nuovamente poco sotto le 200 mila persone. Che fare? I conservatori hanno inasprito un sistema a punti creato dai laburisti che divideva i lavoratori in 3 categorie: altamente qualificati, qualificati e generici. Gli ultimi sono stati virtualmente bloccati ma gli altri hanno continuato ad arrivare. Il Governo intende piegare l'immigrazione anche delle due categorie qualificate di almeno il 5% annuo ma ora c'è che chiede almeno un taglio del 10/20%. Sono cifre velleitarie che fanno a pugni con le necessità dell'economia ma che devono fare i conti con il crescentre disagio dell'elettorato che in fase di recessione si vede minacciato da mano d'opera straniera qualificata.  Intanto si sono scatenate le polemiche sugli studenti. Questi, assieme ai lavoratori e alle famiglie da ricongiungere sono l'altra categoria di extraeuropei che faceva comodo ospitare, dato che paga tasse universitarie molto più elevate rispetto a britannici ed europei. Ora le università sono in crisi e si vedono tagliare i fondi e rischiano grosso dato che ben il 50% di tutti gli immigrati extraeuropei giungono in Gran Bretagna per motivi di studio. Ridurli significa togliere prezioso ossigeno agli atenei. Le ragioni della politica contro quelle dell'economia in un momento in cui quest'ultima è in difficoltà rischiano di costituire un nuovo freno alla ripresa economica britannica. Troppi per i gusti degli elettori che temono la minaccia straniera ma troppo pochi per sostenere un'economia che fatica a ripartire e non riesce ancora a riciclare tutti i disoccupati di lungo termine che non hanno le qualifiche per operare in lavori come l'IT che servono al rilancio del Paese.  

 

  • marco niada |

    I dati analitici novecenteschi vengono forniti dall’Ufficio di statistica britannico e sono meglio che niente. Quanto al censimento delle piccole imprese create da extracomunitari nei Paesi Ue, se ho ben capito, è un’idea, ma nessuno censisce, negli stati democratici, le aziende sulla base dell’origine del proprietario. Non esistevano peraltro statistiche su proprietari di negozi o imprese gestite da bergamaschi o pugliesi. Statisticamente conta il luogo di registrazione della società. Il tema che ho trattato è il tentativo di porre filtri a chi viene fatto entrare in un Paese in base ad astrusi parametri di capacità professionale che si richiede elevata per evitare che giunga mano d’opera squalificata che prenda posti di lavoro alle fasce più deboli o che crei nuovi disoccupati stranieri da mantenere. Ma dato che l’economia è un fiume che scorre, porre barriere e distinguo è come inseguire un bersaglio mobile. Per questo, nella fattispecie, il mondo delle imprese britannico chiede più elasticità al Governo per lavorare meglio. Le imprese devono fare i conti con la mano d’opera disponibile e se un Paese come la Gran Bretagna ha creato un esercito di disoccupati non qualificati che vivono, a volte da generazioni, di sussidi e la politica non riesce a trovare soluzioni per qualificarli, le imprese o assumono immigrati qualificati e volenterosi o emigrano esse stesse.

  • Andrea Frattani |

    Ancora un analisi politica novecentesca. Ancora analizzare la fenomenologia ascrivendola alla sola condizione immigrato=lavoro subordinato. Ce la faremo prima o poi a monitorare il sistema d’imprese gestito da extra ue e la forza lavoro che lo compone? Se si, penso, potremo comprendere meglio e governare in modo più efficace il fenomeno immigrazione.

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