Un Natale di sangue per il retail britannico

L’ultima illustre vittima della serie è state la nota catena di prodotti musicali e video HMV, che ha dovuto ricorrere all’amministrazione controllata, con la prospettiva di chiudere buona parte dei 125 negozi con cui opera e mettere a rischio 2200 posti di lavoro dopo 97 anni di onorata carriera. Il triste annuncio si aggiunge al ricorso di amministrazione di catene altrettanto illustri, quali House of  Fraser, Maplins, Toys RU e Poundworld. Quest’ultima alla fine ha dovuto arrendersi e chiudere, abbassando le saracinesche su 355 negozi e mandando a casa 5500 dipendenti. Ai casi disperati si aggiunge peraltro un nutrito drappello di retailers in chiare difficoltà che, per restare a galla, hanno dovuto potare energicamente i punti vendita: solo per citarne alcuni, Home Base ne ha tagliati 42, Mothercare 60, Marks & Spencer 100 (entro il 2022) e Debenhams 50. Quest’ultimo si trova in pessime acque, con 500 milioni di sterline di perdite e il valore in Borsa crollato del 90% negli ultimi 12 mesi a 46 milioni di sterline. Una capitalizzazione microscopica rispetto ai 2 miliardi del picco raggiunto nei tempi d’oro.

La fila dei feriti più o meno gravi è lunghissima e comprende altri nomi come New Look, Carpetright, Carluccio, Asos, Gourmet Burger, Kitchen, Byron, Jamie’s Italian, Prezzo, Bonmarché e lo stesso Primark, leggendario per i prezzi stracciati e finora considerato praticamente inaffondabile. Primark ha infatti ammesso che “il mercato al dettaglio si trova in una situazione particolarmente sofferta”. Bonmarché, nel dare giorni fa un allarme profitti che ha causato un crollo del titolo del 40%, ha dichiarato di trovarsi a operare “in condizioni senza precedenti, peggiori della recessione 2008-9”. Stuart Rose, presidente di Ocado ed ex Ceo di Marks & Spencer, un veterano del mondo del retail, ha funestamente previsto che “nel 2019 la situazione non migliorerà, al punto che temo che dovremo aspettarci qualche grosso infortunio”.

E’ triste dover stilare la nota natalizia e di fine anno dal Regno Unito con un lamento funebre, ma non potevo esimermi dal mettere il dito su una piaga che affligge un comparto che, con oltre 2 milioni di dipendenti, è il secondo datore di lavoro del Paese dopo il settore pubblico. La situazione è infatti molto preoccupante. Un forte calo delle vendite, unito a una guerra di sconti, sta causando una frana dei margini di profitto, traducendosi in un bagno di sangue negli ultimi due mesi. Novembre, secondo gli addetti ai lavori, è stato il peggiore mese da quando si tengono statistiche del settore. Il tanto sbandierato Black Friday ha infatti innestato una guerra di sconti per tenere vive le vendite che ha provocato a sua volta una catena di forti saldi pre-Natalizi (mediamente del 20%) che nei tempi andati si vedevano solo dopo il 10 gennaio. Le attività online a loro volta hanno inasprito la concorrenza sui rivenditori fisici, rendendo la loro situazione ancor più precaria. Dicembre è stato a sua volta molto debole e l’atteso colpo di coda finale non si è realizzato.

Le ragioni del tracollo del settore al dettaglio sono varie e paiono essersi riunite come in una tempesta perfetta. Sul fondo, i redditi dei consumatori non si sono mai ripresi dalla crisi del 2008-9 e in particolare sono rimasti piatti negli ultimi 2 anni. La gente è sempre più indebitata e ha gli armadi pieni e agli articoli di abbigliamento preferisce sempre più spendere per viaggi e tempo libero. Il continuo aumento del salario minimo ha esercitato pressioni sui margini operativi e le incertezze causate dalla Brexit manifestate concretamente con un calo medio del 12% della sterlina ha compresso i margini sulle merci importate. A ciò si aggiunga il rincaro degli affitti e l’aumento delle tasse locali sulle attività commerciali. Tasse che non hanno colpito il settore online, che ha continuato a erodere quote di mercato al commercio fisico. Nel 2004 l’online pesava soltanto per il 4% del mercato totale rispetto al 18% di oggi. La proporzione dovrebbe salire, secondo il Centre for Retail Research (CRR), al 23% nel 2022.

Sempre secondo le previsioni del CRR da qui al 2022 chiuderanno altri 31mila punti vendita tra esercizi singoli e catene. Saranno 10mila soltanto nel prossimo anno. Dal 2012 a oggi i punti vendita chiusi sono stati 71mila, di cui 23mila di generi alimentari e 47mila non alimentari. Dal 2012, anno in cui il retail ha iniziato a sanguinare copiosamente, al 2022 il calo di posti di lavoro del settore viene stimato in 552mila addetti, pari a circa il 20% del totale del comparto. Ciò che si sta verificando insomma è un trasferimento di risorse dal fisico all’online, con un’erosione di ricchezza generale, dato che il collasso del fisico porta a meno affitti, costi di riscaldamento, tasse e minore utilizzo di personale. Le cosiddette High Streets, ossia le vie commerciali, specialmente quelle dei piccoli centri urbani, sono ormai in crisi nera e molte cittadine hanno vie del centro dall’aspetto desolato. Secondo il CRR le vendite nelle High Streets contavano per il 50% delle  vendite al dettaglio nel 200o rispetto al 36% oggi. Gli affitti commerciali sono sotto crescente pressione, come lo sono i valori degli immobili commerciali, che si trovano ormai fortemente sopravvalutati a  valore di libro e rischiano di implodere. Ciò metterebbe a rischio interi centri commerciali, tramite il meccanismo della perdita del cosiddetto negozio àncora: se una importante catena soffre e chiude negozi in un centro commerciale, saltano gli ormeggi e si crea un effetto di deriva che trascina con sé altri negozi fino a portare al tracollo del centro nel suo insieme.

Stiamo assistendo a una trasformazione epocale in tutto il mondo, con un passaggio dal commercio fisico a quello online. Nel Regno Unito che, come gli USA, è più sensibile al fenomeno, data la presenza di numerose catene di negozi la crisi è molto più evidente rispetto ad altri Paesi. E’ un fatto che questa sta portando a crescente disoccupazione e a un impoverimento generale, che il mondo online riesce a riassorbire solo in piccolissima parte. L’effetto sociale non tarderà a farsi sentire in modo sempre più acuto. Prepariamoci a un 2019 almeno altrettanto difficile dell’anno che si sta chiudendo.

  • carl |

    Mi complimento con Lei per aver trattato l’argomento (sia pure focalizzandosi sul caso UK) di cui finora si era sentito parlare assai poco e, comuqnue, non inn proporzione alla sua importanza ed incidenza congiunturale, sia attuale che futura… Sopratutto per quanto riguarda le cosiddette “economie di mercato” full scale …
    Purtroppo è fin troppo facile pronosticare che – sia nel Regno Unito che altrove – anzichè correre ai ripari di fronte all’ennesimo spontaneismo del mercato (e non mi riferisco unicamente all’incidenza ed agli effetti collaterali dell’e-commerce ) se ne raccoglieranno i cocci con l’abituale e storicamente ricorrente “senno di poi”… Mentre in ogni tipo di “governance” è indispensabile un minimo di capacità previsionale.

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