Se una della maggiori ragioni della Brexit era l’immigrazione e se, al suo interno, a rendere insofferenti gli inglesi era in particolare l’immigrazione dall’Est Europa, ebbene oggi ci sono crescenti ragioni per tirare un britannico sospiro di sollievo. Il famigerato idraulico polacco, che con la sua micidiale efficienza popolava gli incubi dei nostalgici delle tubature vittoriane, ha ormai voltato decisamente i tacchi dai lidi albionici. Secondo l’ultima serie di statistiche demografiche relative ai 12 mesi terminati a settembre, infatti, l’immigrazione Europea nel Regno Unito ha toccato il minimo dal 2009, anno di una potente recessione, con una riduzione netta di 57 mila persone, tra nuovi arrivi e nuove partenze. Di converso, gli immigrati dai Paesi extraeuropei sono saliti fortemente, ai massimi dal 2004, con un saldo positivo di 261 mila persone. In totale, il saldo tra nuovi arrivati e partenze, si è stabilito a 283mila unità (627 mila arrivi e 345mila partenze) più o meno agli stessi livelli degli ultimi 3 anni.
Dal 2004, data dell’accesso dei Paesi Est Europei, a oggi, oltre un milione di europei orientali si è stabilito nel Regno Unito. Gran parte della mano d’opera di questi Paesi ha occupato il mercato del lavoro per prestazioni meno qualificate, specie nel settore delle costruzioni o dell’agricoltura. Per quanto meno qualificati, i lavoratori provenienti dall’Europa orientale si sono mostrati molto più competitivi dei loro pari inglesi, sostituendoli e comprimendo le retribuzioni per l’incremento di offerta. Da un paio d’anni a questa parte, complice un miglioramento dell’economia dei Paesi dell’Est, la svalutazione della sterlina sull’euro del 12-13%, un rallentamento dell’economia britannica e un clima in generale poco costruttivo nei confronti degli europei hanno spinto decine di migliaia di persone a ritornare sul Vecchio continente. Questo controesodo non può che fare contenti coloro che si sono pronunciati per un riequilibrio dell’immigrazione a scapito degli europei. Molti altri però hanno iniziato ad allarmarsi, coscienti che individui provenienti da Paesi extracomunitari difficilmente potranno ricoprire i posti lasciati dagli europei. Nell’agricoltura, l’offerta di lavoro da parte dei britannici è bassissima e la partenza di romeni e bulgari ha inciso fortemente sui raccolti. Nelle costruzioni, gli Est Europei sono lavoratori di grandi qualità. In settori altamente qualificati come finanza, accademia, settore legale, medico, design architettura ogni partenza crea un vuoto difficile da colmare. Peraltro, numerosi studi hanno provato che l’immigrazione europea non ha inciso sul benessere degli inglesi né sul piano della sanità né dell’assistenza sociale. Sul secondo fronte, si stima che gli immigrati europei invece di profittare delle previdenza britannica, siano contribuenti netti di 2.500 sterline per capita annue (pagando le tasse e contributi). Sul fronte della sanità, oltre al fatto che la utilizzano meno degli inglesi, anche perché la maggioranza è composta da gente giovane, l’esodo degli europei sta pesando fortemente sul personale sanitario, medici e infermieri, mettendo l’intero sistema sotto forte pressione.
Si stima che circa 3,5 milioni di europei risiedano nel Regno Unito. Davanti alla prospettiva della Brexit lo scorso anno un numero record, 48mila persone, ha preso la cittadinanza britannica. Una frazione in un mare di individui e per questo motivo il Governo di Londra, cosciente dei rischi di un vero esodo, sta cercando di spianare la strada per permettere ai residenti di ottenere il cosiddetto “settled status” per mantenere i diritti che godevano da cittadini UE. L’ironia della sorte vuole peraltro che decine di migliaia di inglesi abbia preso o sia alla ricerca frenetica di legami con la UE prendendo passaporti irlandesi. Lo scorso anno le richieste sono state 200mila, divise equamente tra nordirlandesi e britannici decisi a mettere un piede nella UE. Altri che risiedono nella UE (sono 1,5 milioni i britannici che vivono al di là della Manica) cercano un doppio passaporto laddove il Paese ospite lo permette. Una cosa è certa: tutte queste partenze o conversioni in altre residenze o nazionalità sono assai difficilmente reversibili nel breve medio termine e costituiscono un impoverimento netto per il Paese.