La Gran Bretagna post Brexit è entrata nel tunnel di un lungo inverno economico da cui inizierà a uscirne, se tutto andrà bene, nel 2021. Questa la conclusione che si trae dall’Autumn Statement, la finanziaria, presentata ieri dal neo Cancelliere dello Scacchiere, Philip Hammond. A Hammond, convinto sostenitore del remain durante il referendum e ora chiamato a gestire la transizione per l’uscita dalla UE, è toccato presentare ieri il conto salatissimo della Brexit. Lo si può quantificare con un numero: 122 miliardi di sterline (circa 140 miliardi di euro), di costo addizionale per le finanze pubbliche tra qui e il 2021, di cui 59 miliardi (circa 70 miliardi di euro) di stretta pertinenza della Brexit, secondo i dati dell’organo governativo indipendente OBR (Office for Budget Responsibility) che sforna le previsioni. In quella data, secondo il sogno proibito del suo predecessore, George Osborne, il bilancio dello Stato pre-referendum, presentato in marzo, avrebbe dovuto andare in attivo di 11 miliardi nel 2020/21. La nuova previsione, pesantemente ritoccata da Hammond, sarà un deficit di 21 miliardi. Negli anni in mezzo, a causa del crollo della sterlina, del rallentamento dell’economia rispetto a quanto previsto a marzo, che inciderà sulle entrate, e degli investimenti addizionali per sostenere l’economia (infrastrutture, ricerca scientifica ecc) il debito pubblico andrà aumentando (invece di scendere drasticamente, come previsto prima da Osborne) dall’attuale 87,3% del pil al 90,2% nel 2017-8 per poi iniziare lentamente a calare. Per dare un’idea dei potenziali danni, basti ricordare che dalla decisione della Brexit il valore delle banche britanniche è crollato e di conseguenza per i contribuenti il costo del loro salvataggio nel 2008 è passato, da allora a oggi, da 9 a 27 miliardi di sterline.
Hammond, che deve operare in un clima di assoluta incertezza, dal momento che nessuno ancora sa quali saranno le incognite che lo attendono in futuro, non soltanto nei rapporti con la UE, ha deciso di tamponare il peggio, cercando di rilanciare la produttività dell’economia britannica, che è di gran lunga inferiore al resto della UE: 35% meno della Germania, 27% meno della Francia e 8% meno dell’Italia (oltre a 30% meno degli USA). Il ragionamento è che se dovrà stare in piedi da sola, la Gran Bretagna dovrà investire maggiormente su se stessa. Così, Hammond ha deciso di lanciare un fondo-produttività che su 5 anni spenderà 23 miliardi in infrastruttura e ricerca scientifica oltre che abitazioni, di cui il Paese è sempre carente. Il problema è che gli investimenti infrastrutturali danno benefici solo dopo anni. Hammond ritoccherà anche il salario minimo al rialzo da 7.20 a 7.50 sterline l’ora (+4%) per aiutare le fasce più deboli, ma questo manterrà in futuro una dinamica di crescita inferiore a quanto auspicato da Osborne e raggiungerà’ 8.80 sterline solo nel 2020. Ci sarà un nuovo aumento da 11.000 a 12.500 sterline nel quinquennio per l’aliquota iniziale oltre la quale si pagano le tasse e da 45.000 a 50.000 per la più alta, oltre la quale si paga il 40%. Verranno ridotte dall’attuale 20% al 17% le tasse sulle aziende, nel tentativo di attrarre più capitali da fuori. Verranno però tolti alcuni crediti d’imposta e dato il continuo calo dei salari reali, le fasce più deboli rischiano di peggiorare nettamente, secondo quanto sostiene l’opposizione laburista. Basta soltanto considerare il crescente rischio di inflazione, causato dal calo della sterlina, che eroderà i salari reali. Secondo Paul Johnson, direttore del IFS (Institute of Fiscal Studies) il maggiore think-tank del paese di economia pubblica, nel 2021 i salari reali degli inglesi saranno ancora inferiori al 2008. Oltre un decennio senza aumento dei redditi, secondo Johnson, < sarà per gli inglesi un periodo terribile, che non si è visto neppure lontanamente da 70 anni a questa parte >.
Va notata anche qualche polpetta gettata qua e la’ a Nord Irlanda e Scozia, che riceveranno dal fondo strutturale rispettivamente 250 e 800 milioni in più. Un contentino per le due regioni che avevano votato per il remain. Oltre a investimenti un poco a pioggia alle regioni del Nord, da sempre le più sfavorite e maggiori sostenitrici della Brexit. Poche briciole, a giudicare dai costi colossali che la Brexit comporterà, secondo le stesse previsioni del Governo. I fautori del leave hanno reagito dicendo che le previsioni sono troppo pessimistiche e che l’OBR, come tanti enti che emettono statistiche, non vanno creduti. Le cose secondo loro andranno meglio, come è accaduto quest’anno in cui si è registrata una crescita maggiore del previsto (2,1% invece di 2%). Non hanno però presentato stime alternative. A quanto pare, basta loro l’ottimismo della volontà condito da un cinismo verso istituti e istituzioni che sfornano statistiche negative.