<Se lasciassimo l’Europa..dovremmo peraltro riconoscere che gran parte dei nostri problemi non sono causati da Bruxelles, ma dalla cronica visione di breve termine, da un management inadeguato, da indolenza, bassa qualificazione professionale, una cultura di facili gratificazioni e sotto-investimento sia in risorse umane, sia in capitale, sia in infrastrutture >. Parrebbe il manifesto del fronte del sì, invece è quanto ha scritto Boris Johnson sul Daily Telegraph, il quotidiano filo-conservatore, nel maggio 2013. Il sindaco uscente di Londra, ai tempi difensore dei benefici del cosmopolitismo della capitale e oggi tra i leader del fronte del Brexit, aveva elencato una serie di difetti britannici arcinoti, di cui si discute da decenni.
E’ inevitabile che, ora che gli animi si scaldano in vista del referendum del 23 giugno, i fautori dell’uscita dimentichino queste cose per concentrare i propri sforzi sul male che viene dall’Europa. Ma una cosa è la critica alla burocrazia di Bruxelles che è condivisibile e un’altra è quella che rischia di lambire sempre di più il contributo degli europei e dell’Europa continentale al benessere britannico. Gli esempi sono tanti, a volte difficilmente quantificabili, ma evidenti a chiunque abbia vissuto per oltre un ventennio da queste parti come il sottoscritto, a cui cresce la tentazione, per amore di polemica, di argomentare per paradossi e rovesciare il paradigma, sostenendo che gran parte dei problemi britannici sono auto-inflitti, e ciò nonostante i numerosi opt-out che Londra è riuscita a ottenere in questi anni da quelli che avrebbero potuto essere potenzialmente effetti negativi, mentre dall’Europa sono giunte in massima parte cose positive, anche perché gli inglesi sono stati appunto abili a servirsene à la carte, migliorando la propria qualità della vita. Il massiccio indebitamento delle famiglie inglesi che si avvicina al 180% dei redditi famigliari e a mio avviso è il maggiore problema del Paese, non deriva peraltro dall’adesione alla UE ma da un’esiziale cultura dell’indebitamento.
Dunque, iniziamo con un primo censimento a spanne degli europei che vivono in UK. Sono oltre 3 milioni, di cui quasi 2 milioni solo nella capitale. Vale a dire pari al 5% della popolazione totale e al 20% della popolazione londinese. Il calcolo è spannometrico, dato che i cittadini europei hanno libera circolazione nel Paese e non vengono monitorati, dunque la stima è per difetto, poiché molti non sono registrati. Ragiono sulla falsa riga della popolazione italiana in UK che, ufficialmente è di 260mila, sulla base degli iscritti all’Aire, ma in realtà, secondo le stesse stime del nostro consolato, è almeno del doppio, (oltre 500mila), di cui circa metà (250mila) nella sola capitale. Dal tempo dell’accesso dei paesi dell’Est nel 2004, la popolazione degli europei orientali è cresciuta fortemente e pesa oggi per quasi metà del totale. Da ricordare, per inciso che Londra è stata per anni paladina dell’allargamento della UE a Est con tutte le conseguente che ciò poteva comportare sul mercato del lavoro. Ciò ha portato oggi a un a una forte pressione per le mansioni più umili, competendo con le fasce basse autoctone e creando insoddisfazione. Ma gli europei orientali, sulla base del credo liberista inglese, non hanno fatto che occupare posti non voluti della mano d’opera locale, che peraltro, a parità di mansioni, hanno provato di essere assai meno qualificati professionalmente. Ciò spiega peraltro come mai i muratori britannici siano virtualmente spariti dalla circolazione. Tutti questi europei, come riflesso in numerose statistiche hanno portato in termini di tasse pagate e lavori svolti infinitamente più benessere di quanto essi abbiano ottenuto dalla previdenza sociale britannica e dal sistema sanitario. Altro problema sono i contributi pagati agli inglesi disoccupati cronici e de-qualificati creati non certo dalla UE ma da forti carenze di qualificazione professionale interna. Se è vero, come molti conservatori inglesi sostengono, che la UE è troppo protettiva sul piano sociale è anche vero che il sistema di maggiore libero mercato del lavoro britannico va a detrimento degli stessi inglesi che non sono qualificati.
Gli europei, a differenza degli oligarchi russi o dei plurimilionari e miliardari dei Paesi del Golfo e di alcune ex repubbliche sovietiche, oltre a portare investimenti privati, laddove si tratta di ricchi individui, portano, a differenza di tutte le altre immigrazioni, una sterminata rete di professionalità che va dalla finanza, all’accademia, al sistema legale, passando per la medicina, l’architettura, il design, la moda la ristorazione, l’arte. Un gruppo di 150 accademici, capitanato dal leggendario prof Steven Hawkings di Cambridge ha scritto una lettera aperta a The Times mettendo in chiaro gli enormi benefici che il mondo accademico britannico ha tratto dall’appartenenza alla UE in termini di risorse e personale accademico che rischiano di essere seriamente danneggiate in caso si un Brexit.
Insomma, gli europei hanno portato tutte quelle cose che hanno reso Londra unica e sempre più godibile negli ultimi vent’anni. Un tessuto connettivo che si è integrato come un guanto con la società inglese e che un Brexit potrebbe portare a lacerazioni insanabili con danni da ambo le parti. Da rilevare peraltro, secondo quanto mi risulta da fonti bene informate, che molte società europee, finanziarie e non, hanno iniziato a valutare piani di emergenza in caso di Brexit, puntando a un trasferimento a Dublino, nella vicina Irlanda dove si parla inglese, dove il costo del lavoro è più basso e la qualificazione delle classi medie locali è uguale a quelle britanniche.
Uno degli argomenti degli eurofobi sta nel fatto che l’Europa è un’area in declino e che la Gran Bretagna ha tutto da guadagnare liberandosi dai vincoli esistenti per potere commerciare più liberamente con grandi mercati come quello cinese o indiano. A parte il fatto che la UE non si è mostrata finora come ostacolo al commercio con queste aree, è tutto da provare che la Gran Bretagna da sola possa estrarre da Cina e India concessioni maggiori. Peraltro, mi risulta difficile capire cosa potrebbero gli inglesi esportare in più in queste aree da soli mentre è certo che si troverebbero in una situazione peggiore nelle relazioni con il mercato europeo dietro casa, che con oltre 500 milioni di persone affluenti resta il maggiore del mondo.