Contro ogni pronostico i conservatori hanno vinto senza mezzi termini e saranno in grado di governare da soli per una legislatura, pur con una maggioranza esigua di 12 seggi, anche se potranno all’occasione aumentarla con il voto à la carte degli 8 unionisti dell’Ulster. Sul tema della governabilità e dei rapporti con la UE torneremo non appena si sarà depositato il polverone elettorale. La vittoria di Cameron oggi non ammette comunque interpretazioni, tanto che i leader dei tre maggiori partiti perdenti si sono sentiti costretti a rassegnare le dimissioni.
La lettura di queste sorprendenti elezioni politiche è semplice. La politica britannica torna a polarizzarsi attorno ai due grandi partiti, alla faccia dei sondaggi illusori che prevedevano coalizioni all’italiana. Il premier uscente David Cameron ottiene 331 seggi che gli permettono una maggioranza uniforme, senza compromessi esterni. I liberal-democratici, che sostenevano la coalizione di Governo con i tories, sono stati spazzati via, con una classe dirigente decapitata, eccetto il leader Nick Clegg, che viene rieletto ma subisce una rotta elettorale che lo obbliga a dimettersi, mentre pesi massimi che per anni hanno calcato le scene come Danny Alexander, Vince Cable, Simon Hughes e Charles Kennedy vanno a casa. La Scozia espelle tutti i partiti tradizionali e 56 su 59 seggi diventano riserva dei nazionalisti del Snp. L’Ukip di Nigel Farage ottiene un solo deputato e perde la testa del focoso leader. Questi, ironicamente, non viene neppure eletto ed è costretto a fare le valigie, lasciando 3,8 milioni di elettori orfani di un progetto. I laburisti, con 232 seggi fanno molto peggio del previsto, dato che perdono tutta la Scozia, dove avevano una forte base elettorale, e calano in Inghilterra e Galles, pur guadagnando in percentuale, con la prospettiva di restare fuori dalla stanza dei bottoni per anni, lasciando ai tories il dominio incontrastato della parte più popolosa del Paese. Ed Miliband, leader del partito, ha dovuto trarre le conclusioni, abbandonando la leadership.
Il dramma di queste elezioni, depurate dai ceffoni presi da liberal-democratici e Ukip, è tutto in salsa laburista. Complici sondaggi pre-elettorali totalmente inattendibili, che anticipavano una politica di coalizioni con al centro il Labour, sono proprio i laburisti a subire l’onta peggiore. Quella del loro leader Ed Miliband – che pareva alla vigilia destinato alla vittoria ai punti, non in termini assoluti di voti ma per la possibilità di attrarre alleati – è stata in realtà una disfatta a giudicare da come il pendolo si è violentemente mosso tra aspettative e realtà. Sterzando a sinistra per mettere definitivamente alle spalle gli anni del New Labour, Miliband ha commesso un grave errore. Gli elettori, coscienti dell’eredità di debiti lasciata dal Governo Brown (di cui Miliband, per la cronaca, era il delfino) hanno pensato che la soluzione per uscire dalla crisi non fosse più sinistra e più tasse, ma la formula di austerità conservatrice che da un paio di anni sta dando tangibili frutti. Hanno votato per la speranza. Se il New Labour ormai non funzionava più, il tentativo di Miliband di disseppellire il vecchio partito tradizionale è stato fatale. Ora il labour si avvia a un futuro tormentato, in cerca di idee e di una nuova direzione. La tomba di Miliband è stata la Scozia, che ha voltato le spalle ai laburisti, facendo evaporare 40 seggi che tenevano da decenni. Vale la pena di ricordare che gran parte della classe dirigente laburista degli ultimi 20 anni viene dalla Scozia, a partire da Tony Blair, Gordon Brown, Alastair Darling, il compianto Robin Cook, John Reid, George Robertson e molti altri. Le radici da cui era spuntata una nuova classe di governo laburista sono state tranciate. La Scozia ha richiamato i propri figli migliori ad occuparsi di affari interni e dimenticare Westminster. Meglio i leali socialdemocratici fatti in casa del SNP che dei laburisti con Westminster al centro delle proprie ambizioni.
Altra importante lezione da trarre. Il Regno Unito non è andato a destra. Ha vinto il centro. I tories, in questi anni seguiti alla crisi, hanno sterzato a sinistra, aumentando le tasse alla fascia alta dei redditi, salvaguardando la spesa in sanità ed educazione, dando un forte giro di vite agli eccessi delle banche. Certamente la loro moderazione è giunta anche dalle pressioni degli alleati liberal-democratici, che hanno pagato l’alleanza col suicidio politico, ma Cameron, ancora oggi, ha messo in chiaro che vuole rappresentare tutto il Paese in modo moderato, ispirandosi ai One nation Tories dei vecchi tempi, quelli che la Thatcher aveva assassinato negli anni ’80 perché considerati imbelli. Guardando ai valori assoluti peraltro, il Regno Unito è più progressista che conservatore: se sommiamo gli 11,3 milioni di voti presi dai tories ai 3,8 milioni dell’Ukip e degli Unionisti dell’Ulster passiamo di poco la barriera dei 14 milioni, mentre sommando ai 9,3 milioni di laburisti i 2,4 milioni di liberal-democratici, 1,4 milioni di nazionalisti scozzesi (socialdemocratici), 1,2 milioni di verdi e altre formazioni di sinistra, i progressisti toccano i 14,5 milioni.
E qui arriviamo al punto dolente finale. Il sistema elettorale britannico è lontano dalla perfezione. Come dicevamo nel precedente blog, se i maggiori partiti non vanno oltre il 30%, si rischia una politica di coalizioni all’Italiana, come i sondaggi prefiguravano, mentre con il 37% dei voti i Tory possono imporsi grazie al maggioritario. Il sistema, combinato al gioco distorto dei collegi, crea un meccanismo crudele: così l’Ukip di Farage col 12,6% dei voti esprime un solo seggio, perde il capo e rischia la rovina, mentre i liberal-democratici, con l’8% (avevano il 22% alle passate elezioni), perdono sì 47 seggi ma ne mantengono sempre 8. Gli stessi verdi , con 1,2 milioni, ossia un terzo dell’Ukip, ottengono sempre un seggio. Un sistema ingiusto, si dirà, ma ben noto ai professionisti britannici della politica, che hanno accettato di correre con queste regole. Per cui, oggi, questo è lo spietato verdetto finale.