La decisione della giapponese Nissan di investire 125 milioni di sterline nell'impianto inglese di Sunderland per costruire una nuova vettura, creando 2mila posti di lavoro, è stata ripresa dai media con un entusiasmo che ha rasentato l'isteria. In un momento in cui tutti rimpiangono la fine dell'industria manifatturiera britannica e lamentano l'impossibilità che questa riesca a colmare il buco lasciato dal declino del settore finanziario, l'annuncio è parso come una raggio di luce in una notte buia. Infatti la notizia va al di là dei pochi posti di lavoro che i giapponesi creranno, ma dimostra che, tutto sommato, gli impianti britannici sono ancora competitivi su scala mondiale, dato che la società giapponese poteva decidere di sviluppare il nuovo modello in qualsiasi altra parte del mondo. Per la cronaca, rileva il Financial Times, gli impianti automobilistici inglesi sono peraltro riusciti ad attrarre nell'ultimo anno e mezzo ben 4 miliardi di sterline d'investimenti perché riescono a mantenersi competitivi. Un dato che fa riflettere l'Italia, dove si discute dei destini della Fiat, della sua identità nazionale e della sua volontà di produrre nel nostro Paese. Considerando peraltro che l'Italia, malgrado tutto, resta un Paese con una base manufatturiera ben piú ampia di quella inglese. Con poco più del 20% di occupati a fronte del 10,5% degli inglesi, l'Italia resta un Paese europeo ancora pesantemente industrializzato, al pari della Germania, dove la mano d'opera manifatturiera pesa per il 20%. Un 20% che permette ai tedeschi di mantenersi quarti al mondo come produzione complessiva, grazie a una fortissima produttività. Sono cifre enormi se confrontate a quelle inglesi anche perché, se è vero che l'industria tedesca è due volte e mezza quella inglese a parità di produttività, è anche vero che la Germania, a parti rovesciate, per quanto abbia un sistema finanziario assai più ridotto degli inglesi non è certo sottosviluppata su questo fronte. A merito degli inglesi va detto che quel 10% di addetti manufatturieri garantiscono quasi metà dell'export nazionale, con un output simile a quello francese. Ciò che conta è la qualità della base industriale rimasta e, nel caso britannico, tra difesa, alcuni tipi di meccanica, chimica, farmaceutica, alimentare, il paese difende ancora le proprie posizioni. Altro discorso è però pensare che questo sia un trend sostenibile, specie se la base manifatturiera continuerà a restringersi. Non a caso il Governo di Londra continua a ventilare progetti e sostegni all'industria. Le associazioni imprenditoriali peraltro insistono per ottenere maggiori aiuti e incentivi. Ma all'orizzonte è difficile scorgere grandi realtà industriali in arrivo, capaci di dare rilancio all'economia nazionale. Tenendo anche conto del fatto che la mano d'opera britannica qualificata nel settore manufatturiero è sempre più rara e cede il passo a una legione di braccianti dei servizi che sono altamente fungibili da un settore all'altro, previa un'infarinatura di qualificazione per passare dal ruolo di cameriere, a commesso, a addetto ai musei. E' anche vero che c'è sempre più un'armata di giovani che sanno usare le tecnologie informatiche in misura molto maggiore che in Italia, ma anche quelle devono avere applicazioni utili, che vadano oltre i registri di cassa o la contabilità aziendale e finanziaria. La leggendaria culla della rivoluzione industriale si culla insomma nella chimera di un'industria che verrà. Un grande Aspettando Godot più a uso di letterati che di economisti.
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