Come il freddo invernale fa stragi di vecchietti, così, mai come questo Natale è stato esiziale per quelle catene di magazzini i cui modelli di business sono stati condannati a morte da internet, complice sullo sfondo la profonda crisi economica che ha colpito duramente i consumi. Come tori nell'arena, barcollanti dalle ferite inferte da toreri, due grandi marchi, HMV e Blockbuster, rispettivamente nella musica e nel video, sono riusciti a fatica a svalicare la frontiera del 2013 per poi stramazzare al suolo a pochi passi dall'inizio del nuovo anno. Le perdite erano ormai troppo pesanti e, come nel caso di HMV che aveva discusso da tempo con potenziali compratori, il modello di business non era più sostenibile né modificabile per tentare un ennesimo salvataggio. Tristissimo. Un quotidiano londinese del mattino, AM, ha titolato mestamente The Day that Music Died tanto il marchio musicale HMV (His Master's Voice, La Voce del Padrone in Italia) era leggendario. Nato da una costola di Gramophone, successivamente nota come la casa discografica EMI, HMV apriva nel 1921 come divisione retail della società in un grande magazzino di Oxford Street, viale dello shopping famoso in tutto il mondo. Gli anni '70 furono felici, con l'apertura di una serie di grandi magazzini musicali fino a toccare quota 35. Nel 1986 l'apoteosi, con l'inaugurazione da parte di Bob Geldof di un superstore da 50mila mq sempre a Oxford Street. Poi la fusione Thorn con Emi, a cui seguì il divorzio nel 1996 e l'avvio di una riorganizzazione difficile. Infine la quotazione separata in Borsa di HMV nel 2002 che ha visto il titolo sgonfiarsi fino a 1 penny per azione il 15 gennaio. Il modello di business era sotto assedio crescente da internet e dalle vendite online, dai downloads, dai supermarket, sempre più agguerriti. Ora sono entrati in scena gli amministratori e 230 magazzini, per un totale di 4mila posti di lavoro sono a rischio di obliterazione. Blockbuster, noto per essere una cattedrale di Dvd e videogiochi a propria volta aveva subito un'erosione insostenibile e pochi giorni fa ha dovuto chiamare gli amministratori di Deloitte per tentare di salvare il salvabile: a rischio sono 4.200 dipendenti spalmati in 538 grandi magazzini. Le prime illustre vittime del 2013 precipitate dal cielo per mancanza del carburante degli acquisti della clientela si aggiungono all'altrettanto triste storia di Jessops, la catena fotografica sterminata dall'arrivo del mondo digitale e dall'avanzata degli smartphone tuttofare. Jessops, che aveva 187 magazzini e 1400 dipendenti non e' riuscita neppure a superare il Natale e ha chiuso prima.
Il collasso dei tre illustri marchi si aggiunge a molti altri più o meno noti che hanno dovuto alzare bandiera bianca dallo scopio della crisi nel 2008 come Comet (computer) Game Group (videogiochi), salvati in parte da un fondo di private equity, Winkworth (grandi magazzini), JJB Sports (articoli sportivi), Peacocks (fashion discount), Clinton Cards (biglietti di auguri), Barrats (scarpe), Black Leisure (outdoor). Secondo il Centre for Retail Research, che tiene statistiche in materia, dal 2008 fino alla fine del 2012 i posti del lavoro persi dal settore sono oltre 50mila. Non tutti i negozi sono però inesorabilmente condannati dall'avanzata di internet o delle nuove tecnologie. Prova ne è che le catene di prodotti elttronici Argos e Dixons, sulle ali di un boom di domanda per i tablets che sono oral'ultimo grido del gadget elettronico, hanno avuto un Natale d'oro. In attesa dei risultati per l'intero anno, che sono attesi in crescita bastino alcuni dati significativi: Dixons nella settimana prima di Natale ha venduto tra uno e due milioni di tablets, circa 5 ogni secondo di apertura dei negozi. Argos ha registrato a propria volta un aumento del 125% delle vendite di smartphone e tablets. I nuovi contenitori dei servizi online che hanno eroso mercato ai vecchi dischi, che fossero di vinile o digitali, marciano ormai inarrestabili.