L’economia britannica stenta a ripartire. Stretta tra la morsa del Covid, che ha martellato sull’attività della gente e della Brexit che, a causa della forte carenza di mano d’opera, ne rende difficile il recupero, il pil britannico, stagnante in luglio con un misero 0,1%, resta ancora al 2,1% al di sotto del livello raggiunto prima della pandemia, nel primo trimestre del 2020. L’allentamento dei legami con l’Europa sta facendo sentire brutalmente i propri effetti, mentre all’orizzonte non si vedono i benefici che avrebbero potuto creare i nuovi legami internazionali necessari per traghettare gli inglesi verso l’Eldorado della Global Britain promessa da Boris Johnson.
La pandemia ha avuto come effetto la partenza di numerosi europei dal Paese che, rimasti senza lavoro, si sono sentiti più protetti in patria sotto l’ala delle proprie famiglie e del proprio sistema sanitario. Gli effetti maggiori si sono sentiti nel campo del retail e dell’ospitalità, oltre che delle costruzioni e dell’agricoltura. La ripresa del trimestre aprile-giugno 2021, con il balzo record del pil del 4,8%, dovuto alla riapertura dell’economia, grazie al ritmo record di vaccinazioni rispetto al resto del mondo, non è servito a molto. Il resto d’Europa era ancora rallentato e frenava sugli scambi mentre la mano d’opera partita oltremanica non è tornata, sia perché ha trovato attività alternative a casa propria, sia a causa delle restrizioni all’immigrazione messe in atto da Londra che hanno reso impossibile il rientro. Chi non dispone del settled status ossia la residenza permanente, può chiedere un permesso di lavoro solo se porta un vero valore aggiunto alla fascia alta della società britannica con salari superiori alle 30mila sterline annue. Alla carenza di lavoratori poco qualificati, va sommata la crisi dei camionisti che, stretti tra cambiamenti fiscali che penalizzano le piccole imprese di trasporto (modulo IR 35) e l’esodo degli operatori europei, si trova ora con alcune decine di migliaia di vuoti da riempire. Con la prospettiva di un netto peggioramento, dato che un terzo dei 300mila trasportatori inglesi è ultra-cinquantenne e si avvicina alla pensione, mentre nel frattempo il Covid ha provocato uno stallo nell’erogazione di circa 30mila nuovi brevetti di guida. Risultato, come hanno mostrato abbondantemente i media, molti scaffali dei supermercati sono ora vuoti per carenze di organici e difficoltà di trasporto delle merci.
A ciò si aggiunga il problema delle piccole e medie imprese britanniche che, davanti alla crescita esponenziale della burocrazia, hanno gettato la spugna e ridotto le esportazioni, mentre dall’altra parte della Manica molti operatori europei hanno scelto di approvvigionarsi da fornitori continentali. É quanto è capitato con la Germania, dove l’export inglese è sceso dell’11% nel primo semestre del 2021 a 14 miliardi di euro a causa di un crollo dell’export agricolo (-80%) e di prodotti farmaceutici (-50%) mentre l’import è rimasto alto, in aumento del 2,6% a circa 27 miliardi perché Londra continua a dipendere da prodotti tedeschi. Il risultato netto però è stato un crollo dell’interscambio e la Germania ora è scivolata dalla lista dei 10 top partner commerciali britannici. In generale l’export britannico verso la UE è caduto in luglio del 6,5%. Non solo: ora Londra si trova maggiormente a dipendere da prodotti cinesi (in aumento del 2%) che sono peraltro soggetti a maggiore erraticità, a causa delle interruzioni della catena delle forniture causate in generali su noli marittimi e trasporti. Insomma, la situazione non è per nulla rosea e si allunga l’ombra della previsione emessa dalla London School of Economics secondo cui l’interscambio UK con l’Europa potrebbe stabilizzarsi in futuro a un livello di un terzo inferiore al passato.
La forte ripartenza del trimestre aprile-giugno, che secondo gli economisti cederà il passo a una successiva crescita assai più moderata come si è visto in luglio e si preannuncia per agosto, ha comunque avuto l’effetto indesiderato di stimolare fortemente l’inflazione, a causa dei colli di bottiglia creati dall’assenza di mano d’opera. I tentativi del Governo di qualificare la mano d’opera inglese per supplire al blocco dell’immigrazione degli europei di fascia bassa non sta avendo gli effetti voluti, dato che non trova gente disposta a prenderne il posto. Risultato: l’inflazione ha segnato a luglio il record storico (da quando si tengono statistiche nel 1997) del 3,2%. Questo sta andando a impattare sui redditi della gente in un momento in cui le misure a sostegno dell’occupazione stanno terminando. Se, come prevedono gli economisti, questo trend inflattivo si confermerà nei prossimi mesi, c’è il rischio che la Banca d’Inghilterra sia costretta ad aumentare i tassi, strangolando vieppiù l’attività economica. Per gli inglesi la prospettiva si tinge di nero, dal momento che il Governo ha preannunciato un aumento delle tasse tramite la national insurance dell’1,25% a partire dal prossimo anno per finanziare sanità e previdenza messe in ginocchio dal Covid. La tassa colpisce solo i redditi da lavoro ed è particolarmente iniquo nei confronti dei giovani che si affacciano alla vita lavorativa gravati da un altro fardello di partenza oltre alle tasse universitarie.
L’inevitabile peggioramento causato dall’indebolimento dei rapporti economici con la UE ha colpito in modo particolarmente duro la capitale Londra, dove risiedono quasi metà dei 6 milioni di europei che stanno nel Regno Unito. Secondo un recente studio di PWC, Londra per la prima volta dal 1988, dopo una crescita senza soste, ha iniziato a perdere popolazione, passando nel 2020 da 9 milioni a 8,7milioni. Cause principali, oltre al Covid che ha spinto una parte della popolazione a emigrare nelle campagne, anche il netto calo della mano d’opera rimpatriata in Europa per i motivi che abbiamo precedente elencato. Ma quella del declino della capitale, il cui cosmopolitismo è stato gravemente colpito dalla Brexit, è una storia che è degna di essere raccontata a parte.