Variante indiana permettendo, l’economia britannica ha ripreso a camminare a passi lunghi e ben distesi. Tanto che CBI, la Confindustria locale, ha rivisto le previsioni di crescita per l’anno in corso dal 6% all’8%, riportando il livello del pil a fine anno ai livelli pre-Covid registrati nel 2019. Il ritrovato ottimismo dell’organo degli imprenditori britannici si estende al 2022, con un altro salto del pil previsto del 5,2%. Ad alimentare questo rimbalzo tumultuoso sarà la spesa delle famiglie che, costretta dalla pandemia a un risparmio forzato durato oltre un anno, riprenderà a rovesciarsi sui consumi alla grande, sostenendo per oltre un quarto la crescita del pil nel 2021 e del 70% nel 2022. La strategia del Governo di puntare tutto su una vaccinazione rapida per fare ripartire l’economia al più presto sembra dunque pagare. Per Boris Johnson la mossa ha peraltro una importante valenza ideologica, perché vuole a provare a ogni costo che la Brexit sta pagando i dividendi, rendendo il Regno Unito un’agile gazzella, rispetto all’anchilosato branco di dinosauri della UE a cui ha voltato le spalle.
Centometrista nato, abilissimo negli effetti speciali, Boris Johnson finora è riuscito a scavalcare ostacoli e travolgere i critici ricordando al suo popolo di fedeli che la traversata del deserto volge al termine. A giudicare dai numeri e dalle valutazioni degli esperti, se è vero che nel lungo termine resta tutto da giocare, tutti concordano che nel breve e medio (2-5 anni) il Regno Unito si troverà però ad affrontare un marcato peggioramento. Il motivo principale deriva dai danni che stanno causando le potenti perturbazioni della Brexit sul commercio internazionale, sia di beni sia di servizi. Per quanto riguarda i beni, come abbiamo segnalato in un recente post, l’interscambio britannico con la UE nel primo trimestre 2021 è crollato del 23% sull’anno precedente a 177 miliardi di sterline , non compensato, se non in minimissima parte (+0,8%), da un aumento dei commerci con il resto del mondo. Ancora nel 2019, nel primo trimestre pre Covid, l’interscambio era di 215 miliardi, di cui il 53% con la UE, che conta ora solo per il 46% dei 177 miliardi di interscambio. I recenti accordi commerciali sui beni conclusi con Islanda, Norvegia, Liechtenstein strombazzati come esempio di un futuro globale per il Paese, sono d’altronde noccioline, dato che contano, su base annua, per 22 miliardi di cui una ventina ascrivibili alla sola Norvegia. Il recente accordo con l’Australia pesa per 18 miliardi annui d’interscambio. Di questo i 12 miliardi di export britannico agli antipodi pesa per l’1.7% dell’export totale di Londra. Quisquilie.
Il lato più inquietante della vicenda però è quello relativo al commercio di servizi, piatto forte della bilancia dei pagamenti. Nel 2019 infatti il Regno Unito subiva un deficit nei beni di 97 miliardi a fronte di un surplus di 19 miliardi sul fronte dei servizi. Il dato, per quanto visibilmente positivo, era già allora poco rassicurante poiché, secondo uno studio della Aston Business School dell’Università di Birmingham, tra il 2016 e il 2019 l’export di servizi si era già ridotto di 113 miliardi di sterline rispetto a quanto avrebbe potuto essere in assenza di Brexit. E ciò in virtù della forte contrazione del settore dei servizi legato alla finanza, come prestazioni professionali, IT, legale ecc…
Londra ha voluto tenere il settore dei servizi espressamente fuori dai negoziati commerciali con la UE post-Brexit, limitandosi a mettere l’enfasi sui beni, peraltro oggetto di continui mal di pancia in Nordirlanda, oltre ai problemi di adattamento alla nuova burocrazia doganale da parte delle PMI britanniche ed europee che si trovano sempre più gravate di oneri che le scoraggiano a operare. L’idea del Governo Johnson era che il forte vantaggio sui servizi avrebbe permesso a Londra di fiorire molto di più al di fuori della UE. Il problema che si è però manifestato è che i servizi finanziari hanno continuato a migrare verso la UE. La Borsa di Amsterdam ha superato quella di Londra nelle contrattazioni azionarie, il mercato dei derivati si è ridotto fortemente, richiamato dalla rispettiva gravità di USA e UE. Parigi si sta mostrando un crescente polo di attrazione regionale per filiali di banche d’affari della City. La gestione patrimoniale e l’asset management a loro volta sono sempre più slegati dal territorio. Le grandi banche d’affari hanno continuato a trasferire migliaia di dipendenti da Londra ai principali mercati locali, quali Francoforte, Parigi, Amsterdam e, nel suo piccolo, Milano, dove sono approdate negli ultimi 4 anni alcune centinaia di banchieri per gestire il mercato italiano. Un’emigrazione destinata ad acuirsi non appena la fine della pandemia tornerà a rendere gli spostamenti all’estero più facili. Da rilevare infine che, se i banchieri si spostano, altrettanto non si può dire per gli impiegati del back-office che resteranno a Londra senza lavoro.
Il problema dei servizi per Londra è infatti che, in mancanza di un trattato con la UE che definisca standard e criteri operativi condiviso e costantemente allineato, è la UE a stabilire cosa considera conforme alle proprie normative tramite il meccanismo delle equivalenze. Ma queste tardano a venire e Londra si trova lasciata fuori dalla porta. La City ha iniziato dunque a sgonfiarsi come un palloncino e con essa c’è la prospettiva di un calo delle entrate fiscali che, attorno agli 80 miliardi di sterline, pesano per oltre il 10% degli incassi totali dell’erario. Secondo recenti calcoli emersi a un seminario del Financial Services Club sul futuro della City, se il calo degli introiti si dimezzasse, il Tesoro dovrebbe aumentare dal 20 al 28% l’aliquota media sui redditi per compensare l’ammanco, con un forte impatto su redditi e consumi. Si tratta, a dire il vero, di uno scenario un poco estremo, ma se l’attuale deficit delle partite correnti aumentasse dai 70 miliardi attuali a 90-100 miliardi di sterline a causa delle probabili mancate entrate di flussi di capitali esteri, la sterlina subirebbe una forte correzione al ribasso, portando a un aumento dell’inflazione e con esso a un’inevitabile aumento dei tassi che frenerebbe la crescita dell’economia. Ecco quindi come due fattori esterni causati dalla Brexit potrebbero incidere negativamente sull’economia attualmente galvanizzata dagli steroidi dei consumi compressi che tornano a galoppare.