Fedele alla promessa, il Governo di Boris Johnson ha raggiunto questa domenica 14 febbraio la fatidica cifra di 15 milioni di vaccinati, ossia la stragrande maggioranza dei quattro gruppi ritenuti più a rischio nel Regno Unito, pari a quasi un quarto del totale della popolazione: il personale sanitario, gli anziani ricoverati negli ospizi, gli ulttasettantenni e coloro sotto i 70 anni che versano in condizioni particolarmente vulnerabili. É sicuramente un successo. Il Regno Unito è uno dei grandi Paesi del mondo più avanti col programma di immunizzazione di massa. Se si eccettua Israele, che ha passato quota 60% con le vaccinazioni, i britannici sono molto più avanti dei cugini americani con il 15% o i Paesi della UE con circa il 4%. Non a caso Johnson ha abilmente girato in politica questa vittoria, sostenendo che, grazie alla Brexit, Londra è riuscita a recuperare l’agilità perduta e muoversi rapidamente, libera dalle pastoie burocratiche di Bruxelles.
Il nazionalismo spinge a pericolose semplificazioni. A guardare infatti meglio e a contare entrambe le dosi necessarie perché l’immunizzazione possa considerarsi completa, solo lo 0,8% dei britannici ha ricevuto il trattamento intero rispetto al 3% di belgi portoghesi e danesi e oltre il 20% degli israeliani, ma a Londra è stata scelta la strada di privilegiare l’estensione del primo vaccino al massimo numero di persone, allungando il tempo del richiamo il più possibile, nella convinzione che verrebbe comunque raggiunta una protezione sufficiente per ridurre drasticamente ricoveri ospedalieri e quindi decessi. Il che dovrebbe essere il primo obiettivo a cui deve puntare principalmente ogni Governo. Su questo fronte Boris si è mosso per tempo, ordinando le dosi con ampio anticipo rispetto agli altri Paesi, tra cui la UE, e si è avvalso delle capacità logistiche del sistema sanitario nazionale, che ha mostrato di sapersi muovere con efficienza militare.
Criticato per avere preso per mesi decisioni colpevolmente in ritardo, per avere esitato e agito con superficialità, fino a farsi bollare come “assassinio sociale” dal British Medical Journal che lo ha accomunato a Trump, Modi e Bolsonaro come peggiore gestore della pandemia su scala mondiale, Johnson ha avuto un colpo d’ala per uscire dalla buca in cui le statistiche lo avevano cacciato come responsabile di uno dei Paesi con la peggiore performance del mondo in termini di morti per popolazione totale (1720) assieme a Belgio (1862) e Cechia (1692), oltre che a primo in Europa per valori assoluti, con oltre 117mila morti. Riuscirà il miracolo di San Valentino a riscattare Boris e portare il Regno Unito in posizione virtuosa rispetto al fondo della graduatoria dove le statistiche lo avevano relegato? La scommessa è in atto e il 22 febbraio Londra dovrebbe dare una road map sulla ripartenza. Corre voce insistente che l’8 marzo dovrebbero riaprire le scuole primarie e medie e successivamente dovrebbero seguire alcuni allentamenti per i negozianti. Ma la cautela è d’obbligo perché psicologicamente il Paese non potrebbe reggere un nuovo lockdown con una ripresa dei contagi e dei decessi, specialmente dopo una forte campagna di vaccinazioni. La scommessa comunque è assai ambiziosa. Se i vaccini funzioneranno, Londra potrà riaprire la propria economia prima di altri Paesi europei, recuperando il terreno perduto. L’economia britannica nel 2020 è infatti quella che ha fatto peggio in Europa con una contrazione del 9,9% del pil, il peggiore risultato da 3 secoli, ossia dal grande freddo del 1709 che mise l’economia del Paese, allora fortemente agricola, in ginocchio.
Ma ripartire significa ripartire su basi diverse e migliori del resto d’Europa? Su questo i dubbi si accumulano dato che la Brexit sta colpendo duramente vari settori. E di questo parleremo nel prossimo post. Per ora leviamo il calice a San Valentino.