Una Brexit da Gattopardo per salvare la faccia al Governo May

Quando la realtà delle cose è irremovibilmente tenace, in politica resta soltanto una soluzione: distorcere il senso delle parole che la descrivono, applicando quella che in diplomazia passa col termine di ambiguità costruttiva. Qualcuno ha usato l’espressione quando si giunse all’accordo del Venerdi Santo del 1998, che portò alla pacificazione del Nord Irlanda. Alcune parti dell’intesa restavano aperte all’interpretazione, fatta in buona fede da ognuno.  Ora ritorna di moda. Con una differenza: che allora il tentativo di quadratura del cerchio servì per aprire la strada a una nuova era. Oggi si è fatto un gran polverone per non cambiare nulla (o quasi), come diceva il Gattopardo.

Quanti pensavano che, all’atto pratico, la Brexit sarebbe stata inapplicabile, avevano ragione e torto allo stesso tempo. Ragione, perché ogni giorno che passa emergono nuovi problemi che rischiano di danneggiare il Regno Unito, rendendo il progetto sempre più rischioso. Torto, perché in realtà, con una piroetta lessicale, si può chiamare Brexit qualsiasi cosa, anche lo status quo.

Tutto è cominciato dal Nord Irlanda. Il partito Unionista (DUP), che con 10 deputati ha in mano le chiavi della maggioranza del Governo May, ha la sua principale ragione d’essere nel tenere il Nord Irlanda saldo nell’Unione. Grazie alla UE, negli ultimi 20 anni, in virtù dell’assenza di controlli alle frontiere con l’Irlanda, l’economia del Nord è andata integrandosi in modo sempre più stretto con il resto dell’isola. I nordirlandesi cattolici e repubblicani vedono questa saldatura come un modo di integrare lentamente il settentrione britannico con il resto del Paese. Gli Unionisti protestanti, che hanno ottenuto la garanzia di Londra di restare nell’Unione, accettavano questo stato di cose grazie alla crescente prosperità della regione. Con la Brexit, tutto questo è stato rimesso in questione.  L’uscita dalla UE avrebbe portato alla restaurazione di una frontiera rigida tra Nord Irlanda e Irlanda, che avrebbe nuovamente creato tensioni tra irlandesi. Dopo che il DUP ha messo in chiaro che non avrebbe mai accettato una frontiera doganale tra Nord Irlanda e Gran Bretagna per mantenere i flussi commerciali immutati entro l’Irlanda, l’unica soluzione è stata quella di lasciare le cose come stanno. Dato che Il Nord Irlanda è però parte del Regno Unito, tutto il Paese si è dovuto adeguare. Da qui la trovata della parola alignement, ossia allineamento. La legislazione britannica in materia commerciale dovrà dunque in futuro mantenersi entro i binari della legislazione comunitaria per permettere alle due parti dell’Irlanda di commerciare come prima.

I media, specie quelli pro Brexit, hanno reagito male, parlando di “capitolazione” su tutti i fronti di Londra nei confronti della UE. Alcuni ministri pro Brexit, in particolare Michael Gove e Andrea Leadsom, si sono difesi dicendo che si tratta di un sacrificio temporaneo necessario (compreso il pagamento di 35-39 miliardi di sterline per il divorzio da Bruxelles) per potere un giorno essere liberi dai lacci e laccioli della UE e potere finalmente prendere una nuova strada. Gove ha detto che gli inglesi potranno sempre votare un nuovo Governo che potrà divergere in futuro in sempre più dalla UE (facendo chiaramente capire che non sarà più guidato dalla May) e la Leasdom ha sostenuto che, comunque, Londra riprenderà il controllo politico e si sgancerà dalla crescente morsa federalista di Bruxelles con risvolti indesiderati a Londra quale un futuro esercito europeo, un fisco europeo ecc.

Insomma, le basi per un accordo commerciale paiono già essere poste, nel senso che, se Londra vorrà uscire dalla UE ma restare “allineata”, dovrà sotto diverse spoglie partecipare almeno alla Unione doganale, senza però avere più voce in capitolo sulla legislazione UE. Una prospettiva che i remainers avevano denunciato sin dall’inizio in campagna referendaria come penalizzante se il Paese avesse lasciato la UE. D’altronde Paesi come la Svizzera o la Norvegia che sono fuori dalla UE per essere allineati nel commercio debbono praticamente ingoiare tutta la legislazione in materia che Bruxelles passa. Inoltre permettono la libera circolazione delle persone. E questo sarà uno dei grandi temi futuri per i prossimi negoziati dato che Londra li vuole controllare.

Intanto, l’intesa ha avuto esito in gran parte positivo per gli oltre 3 milioni di europei già residenti in Gran Bretagna che si troveranno con uno status lievemente diverso rispetto a coloro che veranno a stabilirsi a partire dal marzo del 2019, data della Brexit, quando verranno registrati e probabilmente monitorati sul mercato del lavoro. Per quelli già residenti, i diritti resterebbero acquisiti e non dovrebbero porsi problemi futuri (tutto da verificare nei dettagli), anche se chi lascerà il Paese per più di 5 anni in caso volesse tornare si troverebbe nelle condizioni dei nuovi arrivati post marzo 2019. Londra ha comunque accettato la giurisdizione della Corte di Giustizia Europea, a cui i cittadini UE potranno fare ricorso in caso di diatribe. Il Governo May ha mostrato pragmatismo, cosciente che un esodo di europei dal Regno Unito sarebbe stato esiziale per l’intera economia britannica e che il disagio dei residenti era ormai montato a livelli di guardia.

Chi più pare avere rimesso dall’intesa sono il milione di cittadini britannici residenti nella UE. Costoro potranno continuare a risiedere nei Paesi dove si trovano attualmente con gli stessi privilegi di prima, ma se vorranno girare per l’Europa per periodi più lunghi di una breve vacanza dovranno chiedere visti come ai tempi antichi per entrare in altri Paesi UE. A meno di prendere la nazionalità del Paese in cui risiedono per “europeizzarsi”. Il che aprirebbe la porta ad alcuni problemi, specie nei Paesi che non accettano la doppia nazionalità, come ad esempio l’Olanda. In questo caso la vita per i poveri britannici espatriati e scaricati dalla madre-patria diverrebbe piuttosto complicata. Sono i primi danni collaterali auto-inferti dalla Brexit.

Theresa May è insomma riuscita a guadagnare tempo, a andare avanti chiudendo una fase negoziale malgrado le lamentele dei Brexiters e a prepararsi per quella successiva la cui riuscita potrà portare all’implementazione degli accordi di venerdì 8 dicembre, che per ora restano congelati. La strada da percorrere è ancora lunga. Ma una cosa è ormai evidente:  come era da immaginare, il potere negoziale di Londra verso un blocco commerciale di 500 milioni di persone, da cui dipende metà del suo export, è minimo.