Esaurita l’euforia iniziale innescata dalla decisione di denunciare l’articolo 50 che dà il via al processo di divorzio dalla UE, per i Brexiters, i fautori dell’addio all’Unione si trovano da oggi a fare i conti con la dura realtà. Finiti i proclami emotivi sulla proclamazione della “liberazione” del Paese dal giogo europeo o della messa in acqua della scialuppa di salvataggio che si allontana dal Titanic che affonda, come ha detto recentemente il populista eurofobo Nigel Farage, si è passati ora letteralmente alla resa dei conti e all’avvio del processo legale che districherà il Regno Unito dalle maglie della legislazione europea. A prima vista si profila un divorzio costosissimo. Durante la campagna elettorale, i Brexiters avevano dichiarato che l’uscita dalle UE avrebbe portato a un aumento del danaro disponibile da spendere su scala nazionale: non dovendo pagare più i 18 miliardi lordi (ma in realtà 12 al netto dei trasferimenti) di sterline annue di contributo alle casse di Bruxelles si sarebbero resi disponibili ben 350 milioni alla settimana da dirottare sul sistema sanitario nazionale. Ora, il rischio è che il conto da pagare per l’uscita sia di 50 miliardi di sterline. Una cifra a sua volta irrisoria secondo chi, calcolando anche i costi indiretti, prevede un esborso di 200 miliardi nei prossimi 15 anni. Abbastanza da agire da freno a mano sull’economia del Paese per tanti anni a venire.
La faciloneria dei Brexiters, che influenza pesantemente l’azione di Governo di Theresa May, prevedeva inoltre che, data l’importanza dell’economia britannica in Europa, la UE avrebbe accettato di buon grado di arrivare a un divorzio rapido, facendo numerose concessioni agli inglesi, nell’interesse economico di entrambe le parti. Niente di tutto ciò si profila, come era peraltro chiaro da tempo a chiunque non fosse in uno stato di diniego e seguisse gli affari di Bruxelles. L’orientamento della UE, messo in chiaro da un recente documento che delinea l’impalcatura delle trattative a venire, è che prima si dovrà giungere a un accordo sul pregresso, ossia il danaro che gli inglesi devono per i programmi di spesa che avevano sottoscritto e in cui erano coinvolti (per evitare che il loro conto ricada sugli altri 27 membri), sulla condizione dei cittadini UE nel Regno Unito e dei britannici in Europa e, in generale, sulle regole da seguire nel negoziato, che devono tassativamente tener presente le leggi europee dato che fino al giorno del Brexit di fatto Londra resta a tutti gli effetti membro della UE. Bruxelles vuole peraltro negoziare in successione prima l’impalcatura negoziale dell’uscita dalla UE e poi i negoziati per un nuovo accordo commerciale che regoli i rapporti futuri tra le due parti.
Altro che il Titanic di Farage. Di titanico, per ora, si profila lo sforzo negoziale e legislativo che dovranno compiere gli inglesi nel prossimo biennio con assai probabili strascichi di proroghe e rinvii per altri anni a venire prima che una nuova relazione sia definita. Non a caso il Governo May ha deciso di programmare una maxi legislazione che incorpori tutta la legislazione UE esistente nelle leggi nazionali (circa 19mila direttive vanno infatti formalizzate nella legge britannica) per evitare ulteriori complicazioni. In un secondo tempo, una volta consumato il divorzio, il Governo potrà cancellare o modificare le leggi che riterrà meno opportune. Pare una soluzione pragmatica ma molti non hanno mancato di notare l’enorme contraddizione tra l’opposizione decennale e sistematica alle leggi europee da parte degli eurofobi che, ora al potere, facendo finta di niente hanno deciso che, tutto sommato, tutto quanto deciso durante gli anni di adesione alla UE, non era così male, specie nel campo dell’ambiente, dei diritti del lavoro, dei requisiti sanitari delle merci che circolano nell’Unione e che non sono mai stati una priorità per i conservatori che vedevano in questa legislazione un eccesso regolamentare. E’ vero che il Governo si riserverebbe poi di modificare eventualmente le leggi importate col “copia e incolla”, ma credo che sarà l’ultima preoccupazione, considerando le 15 sedute parlamentari previste soltanto per passare le grandi linee di quello che va col nome di Great Repeal Bill che, contrariamente al significato letterale, pare non respingere proprio un bel niente.
Saranno mesi e anni di intensa attività legislativa e negoziale che comporterà un costo non-monetario a sua volta altissimo, dato che il Parlamento sarà imbambolato come un pitone che deve digerire una mucca e che non avrà l’agilità necessaria per gestire l’ordinario. E i problemi da risolvere non mancano: da una crisi profonda del sistema sanitario che manca di risorse e fa acqua da tutte le parti, alla Difesa, che ora si trova con un buco di 10 miliardi di sterline da ripianare, alla recente scoperta che ci vorranno miliardi di investimenti per ammodernare il sistema doganale in vista di un libero commercio a tutto campo a tutti i nuovi investimenti necessari per ovviare ai trasferimenti che giungevano dalla UE.
Incalzato da una stampa eurofoba che dalle colonne del Sun e del Daily Mail spara a palle incatenate contro l’Europa, il Governo May si troverà peraltro sotto pressione a non fare concessioni a Bruxelles, specialmente quando si tratti di pagare il conto. Sarà una situazione difficile da gestire, con un’opinione pubblica aizzata dai media eurofobi. Se la situazione degenerasse e finisse in rissa, Londra potrà sempre rinunciare completamente a un accordo e ripartire nei rapporti con la UE secondo le regole del WTO, l’ente del commercio mondiale. Sarebbe un punto di partenza bassissimo, con una montagna da scalare con centinaia di nuovi accordi bilaterali. Senza calcolare il rischio di avere rovinato in modo serio i rapporti con il resto dell’Europa per una generazione. Speriamo che il buon senso prevalga.