La flemma proverbiale degli inglesi è più che mai d’aiuto in questi mesi di grandi rivolgimenti per mantenere un’immagine composta del Governo verso il resto del mondo. E, a essere realisti, non c’è altra soluzione percorribile all’orizzonte davanti all’enormità del compito che l’attende per gestire la Brexit. Sotto la superficie però le acque sono agitate. Cameron ha appena deciso, dopo le dimissioni da Premier, di lasciare del tutto la politica. Jeremy Corbyn sta giocandosi la leadership contro il rivale Owen Smith in un clima di totale nebbia sulla direzione futura del partito. E sullo sfondo, la nuova mappatura dei collegi elettorali in vista di una riduzione dei parlamentari, promette nuove tensioni e rivolgimenti.
Cameron, innanzitutto: i detrattori lo accusano di avere mentito due volte, prima dichiarando che sarebbe rimasto alla guida del Governo anche in caso di vittoria della Brexit e poi che sarebbe comunque rimasto in Parlamento per offrire al proprio partito perle di saggezza. Ma l’uomo che rischia di passare alla storia come colui che ha giocato il futuro del proprio Paese su una scommessa azzardata, ha evidentemente deciso di passare a vita privata per incassare i dividendi delle proprie relazioni privilegiate in qualche futura attività commerciale. D’altronde il passato non può tornare: Theresa May gli sta bruciando alle spalle tutti i ponti con una sterzata a sinistra del partito, attaccando la gestione elitista del passato. La May ha già fatto un’inversione a 180 gradi sulla riforma scolastica reintroducendo le vecchie grammar schools che Cameron cercava di eliminare definitivamente e sta cercando di mostrare il muso duro al mondo della finanza con riforme punitive nei confronti dei manager irresponsabili. Più di tutto, ora che ha ereditato il pasticcio della Brexit, la May ha bisogno di avere le mani libere e avere Cameron attorno rappresenterebbe, come ha ammesso lo stesso ex-premier nel suo discorso di addio, “una distrazione” che il Governo non può permettersi.
Il team che deve negoziare la Brexit è ancora in formazione, i sondaggi nei confronti dei Paesi europei per capire che atteggiamento questi prenderanno in futuro sono nebulosi. I media seguono istericamente ogni dato che esce dall’economia per capire se la situazione sta peggiorando o migliorando, continuando a scorrere diverse ipotesi inutili dato che, fino a che la Brexit non sarà realtà, hanno scarso significato. E in questo clima di sospensione e confusione continua l’agonia dei laburisti, che rischiano di spaccarsi nel caso della probabile vittoria di Corbyn, sempre più inviso alla destra post-blairiana. E nel frattempo continua il mal di pancia degli scozzesi, mentre un eloquente studio del think-tank IFS (Institute for Fiscal Studies) mette in guardia i gallesi (che hanno votato per andarsene) da un netto calo dei sussidi a causa dell’uscita dalla UE che dovrà essere controbilanciata da nuove tasse o un crescente deficit del bilancio centrale.
Sullo sfondo, peraltro, si prepara un altro terremoto con la revisione radicale dei collegi elettorali che rischia di costare caro ai laburisti. La decisione di ridurre i membri della Camera bassa da 650 a 600 è in vista delle elezioni del 2020. Secondo gli esperti, la nuova divisione dei seggi proposta dall’indipendente Commissione elettorale, con l’accorpamento dei collegi meno popolosi, nuocerebbe ai laburisti, col rischio di dare al Governo conservatore una maggioranza di 100 seggi. Corbyn o non Corbyn, il futuro del Labour non è mai stato più nero. Ma i Tory non hanno molto da rallegrarsi: sono al Governo, ma mai come oggi sono stati meno al potere, tanti sono i fattori esterni da cui dipenderà nei prossimi anni il futuro del Paese.