Il dado è tratto. La legge britannica che sanzionerà il voto referendario sull’appartenenza alla UE è ai blocchi di partenza. Voteranno tutti i cittadini Paesi britannici, compresi quelli all’estero da non oltre 15 anni, e tutti i cittadini residenti provenienti dai 53 del Commonwealth, oltre agli irlandesi. Di questi, maltesi, ciprioti e Irlandesi sono anche cittadini UE. Ma il grosso dei 4 milioni di cittadini UE residenti in Gran Bretagna saranno tagliati fuori da una decisione che riguarda il loro futuro.
A prima vista non c’è nulla di strano, dato i cittadini UE residenti in UK, per quanto possano votare alle amministrative e all’elezione dei sindaci, come nel caso di quello di Londra, non possono votare alle consultazioni politiche, in quanto non hanno la nazionalità britannica. Che un cittadino indiano, pakistano o canadese residente in UK possa però dire la sua sul destino di un belga o italiano altrettanto residente non è molto lineare. Gli stranieri residenti pagano le tasse locali e votano alle elezioni locali, pagano le tasse al fisco britannico ma non votano alle politiche per il principio di nazionalità, applicato nella massima parte dei Paesi del mondo. L’eccezione del Commonwealth con le sotto eccezioni maltesi, cipriote e irlandesi, imbroglia però le carte.
Sulla scorta di una netta vittoria elettorale, anche se con soli 12 seggi di maggioranza, incalzato dagli eurofobi dell’UKIP di Nigel Farage e dagli euroscettici del proprio partito, David Cameron dà seguito alla promessa di garantire entro il 2017 un referendum sul futuro del Regno Unito nella UE. Il decisionismo del premier è peraltro rafforzato dalla recente decisione dei laburisti di accettare un referendum che prima osteggiavano. Ora la battaglia si sposta sull’età dei votanti. Alcuni chiedono che dagli attuali 18 si scenda a 16-17 come è stato il caso del referendum della Scozia, che si è trasformato lo scorso anno in un vero plebiscito. Secondo i sondaggi, i giovani sono i più pro-europei e un coinvolgimento dei teen-ager potrebbe fare oscillare la bilancia in favore dell’Europa.
Cameron per ora sul tema dei giovani elettori non ci sente. E tira dritto iniziando le consultazioni con i colleghi dei Paesi europei, con un primo round di sondaggi a partire dal presidente dela Commissione, Jean Claude Juncker. Il piano del premier britannico è piuttosto semplice: promette un referendum e nel frattempo rinegozia con Bruxelles il ruolo del suo Paese nella UE, con saldi e invalicabili paletti su temi come il Welfare (o il suo presunto abuso, da parte degli europei ivi residenti) e l’immigrazione. Se ottiene ciò che vuole, raccomanderà agli elettori di rimanere, altrimenti si asterrà o raccomanderà il contrario. I laburisti hanno già fatto sapere che si batteranno per restare nella UE. Una posizione che tengono peraltro la maggioranza di Scozzesi e Gallesi. Si preannuncia una battaglia complessa.
Per i 4 milioni di residenti europei, compreso il sottoscritto e un altro mezzo milione di italiani, si prepara un periodo incerto. L’immigrazione europea, a differenza della maggioranza delle altre, con l’eccezione degli americani, non ha portato solo braccia per lavori de-qualificati, ma almeno un paio di milioni di persone che si sono mescolate alla classe dirigente britannica in ruoli nevralgici dell’economia, dalla medicina, alla finanza, passando per l’architettura, l’arte e mille altri mestieri di alto livello. Un’eventuale uscita del Regno Unito dalla UE costringerebbe una ridefinizione dei rapporti con la legione dei cugini affluenti d’Oltre Manica, con effetti laceranti. L’esito più probabile potrebbe essere quello di tirare una riga tra vecchia e nuova emigrazione dando più o meno diritti secondo il periodo di trascorso di residenza. Ma davanti a un grande cardiochirurgo o a un architetto arrivati solo di recente come si comporteranno i pragmatici inglesi? Tutte questioni aperte che per ora sono nel regno delle ipotesi ma che rischieranno di porsi inevitabilmente.