L'industria dell'auto britannica sta attraversando una seconda giovinezza. Il Paese più de-industrializzato d'Europa sta infatti incubando un nuovo miracolo automobilistico. Mentre Italia e Francia sono alle corde e gli stessi Stati Uniti non se la passano bene, la Gran Bretagna ha innestato le marce alte, mettendosi alle costole degli imbattibili tedeschi, anche se questi restano irraggiungibili con quasi 6 milioni di auto prodotte. Secondo rielaborazioni pubblicate oggi sul Financial Times da Peter Marsh, massimo esperto manifatturiero del giornale inglese, l'inarrestabile boom produttivo, che ha superato lo scorso anno la soglia di 1,5 milioni di unità, dovrebbe passare di slancio la marca dei 2 milioni di unità, per la precisione 2,07 milioni, nel 2017. Secondo uno studio dello scorso anno della SMMT (Society of Motor Manufacturers and Traders) l'associazione britannica del settore, la produzione potrebbe addirittura superare i 2,2 milioni con un anno di anticipo, ossia nel 2016 . Gli addetti del settore, attualmente 140mila, potrebbero per quella data raggiungere la barriera dei 160mila. Se il picco produttivo avanzato dalle previsioni fosse raggiunto, si tratterebbe per la Gran Bretagna del record assoluto di tutti i tempi, più elevato del massimo di 2,1 milioni di unità raggiunto nel 1970, anno d'oro delle quattroruote Made in England.
Come è stata possibile questa rinascita? Tutti ricordiamo il tracollo dell'auto britannica negli anni '70, una caduta verticale che portò la produzione a un minimo di 1,3 milioni di unità nel 1980. Tutti ricordiamo anche il recupero successivo degli anni '80 e '90 grazie agli investimenti in impianti produttivi delle tre grandi case giapponesi (Nissan, Honda e Toyota) e alla forte presenza di tutti i maggiori produttori mondiali, americani ed europei compresi. La vendita di tutti i marchi britannici agli stranieri (Bentley, Rolls Royce, Rover-Mini, Jaguar, MG), oltre alla politica della porta aperta alle grandi case estere, permisero alla produzione automobilistica britannica di raggiungere il picco di 1,97 milioni nel 1998. Le Cassandre continuavano però a ripetere che era un boom che non poteva durare, dato che era alimentato esclusivamente da produttori stranieri che in Gran Bretagna assemblavano ed erano pronti a fare le valigie per muoversi su mercati più efficienti al primo stormir di foglia. Gli impianti di assemblaggio, oltre a garantire poco valore aggiunto, fornivano peraltro posti di lavoro ridotti rispetto alle case che mantenevano salde le loro radici nei mercati nazionali. I detrattori ebbero parziale soddisfazione dopo la crisi del 2008: la produzione britannica cadde in picchiata, toccando il minimo storico di 1,1 milioni nel 2009. Da allora la rimonta si è nuovamente dimostrata bruciante. Basta guardare peraltro alle dinamiche: gli 1,57 milioni di pezzi del 2012 sono in aumento dell'8% sul 2011, mentre paesi come spagna e Francia che producono ancora sopra gli 1,9 milioni, sono in netta frenata con un calo rispettivo di auto prodotte del 12% e del 17% sul 2011. Per l'Italia, che ha prodotto meno di 700mila unità lo scorso anno con un calo del 15%, è meglio stendere un pietoso velo.
La terza rinascita dell'auto britannica si basa su un impasto di ingredienti che fanno appello al passato (ottima mano d'opera qualificata, mercato del lavoro flessibile, facilitazioni in termini finanziari) a cui si aggiunge certo la debolezza della sterlina, ma anche una nuova apertura internazionale che punta sui mercati emergenti, quali India e Cina, oltre agli USA che restano sempre sulla mappa, con prodotti di fascia alta quali Range Rover, Mini, Jaguar, Rolls Royce, Bentley che hanno un successo travolgente presso i nuovi ricchi del pianeta. Basti pensare che le auto destinate a Russia e Cina hanno avuto un aumento del 9% di vendite lo scorso anno e che comunque ben 8 su 10 auto prodotte in Gran Bretagna sono oggi destinate ai mercati esteri . Circa un terzo del totale va ai mercati emergenti. Non ultimo pesa il fattore dei proprietari di auto inglesi dei Paesi emergenti, come l'indiana Tata, che ha comprato Jaguar e Land Rover e che meglio di ogni altro è capace di convogliare tali prodotti di fascia alta sui propri mercati domestici. Tutto questo ha spinto i produttori a scommettere nuovamente sulla Gran Bretagna: dal 2010 tra Tata, giapponesi e BMW le grandi case straniere hanno investito be 10 miliardi di sterline (12 miliardi di euro) sul rilancio dell'auto britannica.
Insomma, l'approccio mercenario e aperto dei britannici sta pagando per la terza volta in un contesto completamente diverso. Coscienti di non potere combattere da soli, gli inglesi hanno messo a disposizione degli stranieri il meglio della propria mano d'opera e capacità ingegneristica. Delegano tutto e lasciano che le forze del mercato operino da sè. La formula funziona. I nazionalismi automobilistici vanno forse bene ancora per chi le auto le sa fare come tedeschi e giapponesi. per gli altri l'apertura al mondo è l'unica via di salvezza come ha provato Londra. Speriamo che Chrysler sia per la Fiat l'ancora della salvezza. Certo è che l'Italia doveva muoversi con 20 anni d'anticipo quando le case straniere mostravano interesse per alcuni nostri marchi come l'Alfa Romeo. O i giapponesi sarebbero sbarcati volentieri a casa nostra. Ma allora fu proprio Fiat a fare ostruzionismo per tenere fuori il temuto straniero.