La domanda l'ha posta l'ultimo numero di The Economist, dedicandole addirittura la copertina: quanto sta cambiando il mondo il crescente flusso di informazioni e dati che alluvionano ogni giorno la rete? Un paio di esempi fatti dall'autorevole settimanale britannico sono illuminanti: solo nel 2009 le video-informazioni raccolte dai droni americani che sorvolano Iraq e Afghanistan necessiterebbero 24 anni per essere visionate integralmente. In virtù degli sviluppi teconologici in atto nel 2011 la capacità verrà moltiplicata per 30. Nel 2005 l'umanità ha messo in rete 150 exabytes (miliardi di gigabites) e quest'anno ci avvicineremo a 1.200 exabytes. Chi legge e chi processa tutti questi dati e con quali fini?
Governi, società di vendite al dettaglio, di carte di credito e di telefoni mobili esaminano miliardi di dati per comprendere le abitudini e atteggiamenti di cittadini e consumatori e comportarsi di conseguenza. Si pongono enormi problemi in termini di privacy e limiti alla libertà individuale che il settimanale giustamente segnala con preoccupazione. Ma la mia preoccupazione è per certi versi più semplice ma anche più inquietante. Al di là di quanto la rete sa di noi, quanto siamo noi stessi risucchiati e distratti ogni giorno dalla rete? Tra siti online, blogs, chat rooms, comunità come Facebook, Twitter e You Tube, siti di informazione online in tempo reale, oltre a decine di email e altri vari tipi di sollecitazioni che si aggiungono alle solite telefonate e sms del nostro cellulare, quanto sta facendo le spese la nostra capacità di concentrarci su qualcosa, di distinguere ciò che è apparentemente urgente da ciò che è realmente importante, di catturare l'attenzione del nostro prossimo? Stiamo sempre più vivendo in un mondo che pare come un grande stadio di calcio in cui ognuno parla e nessuno ascolta, dove tutto pare importante e allo stesso tempo inutile, in cui si perdono le gerarchie tra buone e cattive informazioni e in cui la velocità di bombardamento di dati e informazioni ci rende sempre più dissociati, obbligandoci ad agire sempre più con più funzioni in parallelo. I top managers a questo riguardo sono all'avanguardia di una vita iperstimolata e accelerata con impegni che si succedono come in una corsa a ostacoli, spesso programmati con mesi d'anticipo. Tutto è in crescente accelerazione e crescita. Siamo di fronte a uno Tsunami di democrazia (il che è un bene) che mette tutto sullo stesso piano, che a tutti da pari dignità e capacità di esprimersi e comunicare ma che rischia di toglierci il ben dell'intelletto. Se alle informazioni continue uniamo infatti la necessità di operare in rete (sempre più nel mondo anglosassone è il caso) per controllare i conti bancari, pagare bollette, rispondere a richieste, fare shopping il rischio è quello di restare sempre più incollati al nostro Blackberry o iPhone ovunque ci troviamo, schiavi di un infernale ping-pong le cui regole del gioco vengono dettate dall'esterno: la nostra azienda per cui lavoriamo, ma anche la banca, il commercialista, il dentista che manda messaggi e via di seguito. Se poi pensiamo che sempre più le elite si stanno forgiando e affermando tramite la rete in base alla loro capacità di operare come centometristi del business perchè la tempestività di reazione sta diventando sempre più rilevante nell'efficienza del lavoro c'è il rischio di trovarsi di fronte a una società spaccata. Un mondo diviso tra la vecchia generazione e la nuova, tra le classi medie che rappresentano l'uomo della strada e quelle alte, sempre più ubique e immateriali che si muovono e misurano il loro successo operando in un gigantesco videogioco. Da quanto è dato capire siamo soltanto alle soglie di questo mondo nuovo iperinformato. Ma quanto saremo in grado di controllarlo?