La crisi d’identità del capitalismo senza capitali

Robinson_crusoe2 Quella che vedete qui accanto è un'illustrazione del famoso libro Robinson Crusoe di Daniel Defoe. Per molti, la storia del naufrago che per 28 anni sopravvive su un'isola deserta abitata da selvaggi in virtù della sua cultura, delle conoscenze tecniche che gli permettono di creare una micro-civiltà moderna è il primo vero manuale del perfetto capitalista. Un capitalista all'antica e con capitali, sostenuto dall'ottimismo dell'età dei lumi: terra, mercanzie stoccate per i periodi di carestia, coltivazioni razionali, piccoli commerci coi locali, armamenti per difendersi, piccole invenzioni, permettono a Robinson di cavarsela egregiamente. Defoe, che è stato uno dei più grandi cronisti della City nel XVIII secolo, è stato un illustre testimone della nascita del capitalismo primordiale, tramite accumulazione di surplus. Un poco quello che capita oggi nei Paesi emergenti come India e Cina, mentre l'Occidente si sta ancora leccando le ferite subite nel tremendo capitombolo seguito al Grande Balzo Finanziario. Un balzo alimentato da un decennio di ricorso sfrenato al debito che ha creato un capitalismo di carta, senza capitali.


Ora che ci stiamo penosamente rialzando dalla caduta e tastiamo le parti del corpo doloranti ci poniamo le prime importanti domande: quanto ci vorrà per uscire dalla crisi? La ripresa sarà a V a W a U o più probabilmente a forma di amo da pesca, ossia una L che lentamente vede la gamba orizzontale inclinarsi verso l'alto? E poi come usciremo? Con lo stesso modello di sviluppo di prima? A giudicare dalla somma enorme di danaro guadagnata dalla banche d'affari nel 2009, con la sola Goldman Sachs che si prepara a distribuire tra i dipendenti bonus per 19 miliardi di dollari, non molto pare essere cambiato, malgrado i proclami dei Governi occidentali di volere creare un finanza più equa e regolamentata. L'opinione pubblica è furibonda davanti a guadagni smodati proprio nell'anno di recessione peggiore dal dopoguerra, con milioni di posti di lavoro perduti. I politici demagogicamente interferiscono nella gestione delle banche seminazionalizzate a spese dei contribuenti per difendere i cittadini ma i top manager strillano e mettono in guardia da una fuga di personale qualificato verso le banche rimaste fuori dalla mano pubblica. Queste, dopo avere ripagato i debiti e fatto ricorso al mercato per raccogliere capitali freschi, sono tornate a fare soldi con le tecniche di prima. Pare infatti difficile trovare alternative a un modello che per le banche finora ha funzionato. I politici, a meno di rinnegare l'economia di mercato, capiscono che non possono interferire troppo in banche private in salute, ma riconoscono allo stesso tempo l'urgenza di cambiare. Il problema è che questa crisi è arrivata così forte e virulenta da non permettere a nessuno di pensare a fondo un nuovo modello di crescita, soprattutto se si considera che i Paesi emergenti stanno facendo miracoli con la vecchia formula. Siamo in una soffertissima fase di transizione. Sappiamo che il vecchio modello ha bisogno di profonde riparazioni ma allo stesso tempo non possiamo chiuderci in una sorte di economia pauperista o neosocialista proprio in un momento in cui i Paesi emergenti stanno erodendoci continuamente quote di mercato. La finanza, che ricicla i capitali degli emergenti pare dunque essere per ora una soluzione parziale dato che non possiamo più competere più in numerosi settori industriali e agricoli. Ma i Paesi emergenti con la loro onda d'urto rischiano di portare a loro volta a un modello insostenibile, che fabbrica crescente inquinamento. Forse per l'Occidente in crisi, sostenuto da un capitalismo di debiti e cambiali, è giunto il momento di ripensare a fondo il modello presente coinvolgendo il più possibile i Paesi emergenti. Mai più di oggi ci si è accorti di quanto il mondo sia globale e di quanto sia necessario collaborare tutti assieme.