Dopo Grecia, Francia e Russia, i disordini sociali causati dalla crisi economica sono giunti in Gran Bretagna con una serie di manifestazioni in tutto il Paese contro le assunzioni di mano d'opera italiana da parte di maestranze inglesi che chiedono "british jobs for british workers". Il segnale è preoccupante, perchè finora gli inglesi parevano immuni dai rigurgiti nazionalisti e i più convinti sostenitori della globalizzazione. Per quanto il termine globalizzazione paia ancora oggi per iniziati e frequentatori dei vertici alla Davos, in Gran Bretagna tutti quanti, dal grande banchiere all'umile taxista, hanno chiaro in mente i vantaggi, specie per la capitale, che ha procurato l'arrivo degli stranieri in questi anni. Ma cosi è se vi pare: il protezionismo, o la de-globalizzazione, come i dotti di Davos la definiscono, sta tornando strisciante. Come testimoniano le tentazioni negli Usa di fare campagna per il "buy american".
Sia il premier Gordon Brown sia il ministro dell'Industria e business Peter Mandelson hanno condannato le proteste in casa propria, ricordando che nell'Unione europea vige piena libertà nel mercato del lavoro. Ma i lavoratori colpiti non vogliono sentire ragioni e rinfacciano a Brown di avere promesso più volte di voler salvaguardare i posti "inglesi". Ricordiamo che il boom di Londra degli ultimi 15 anni è stato creato dall'arrivo di oltre un milione di stranieri in settori sia ad altissimo valore aggiunto come finanza, pubblicità, campo legale, accademia e ricerca scientifica, sia nelle fasce più basse del mercato del lavoro, dall'edilizia al settore alberghiero e della ristorazione. Permettendo all'economia della capitale di crescere a ritmo doppio di quella del resto del Paese. A riprova dei vantaggi di un'economia aperta. Che ne sarebbe stato del boom della City senza il contributo di decine di migliaia di banchieri europei e americani? E dell'edilizia senza muratori e idraulici polacchi e di altri Paesi dell'Europa dell'Est? E nella ristorazione senza italiani, francesi e rappresentanti di decine di altre cucine tipiche? E nella moda senza italiani e francesi? E chi avrebbe mandato avanti i piccoli esercizi come drogherie e edicole o spacci alimentari senza l'apporto di indiani, pakistani singalesi, greci e libanesi? E chi avrebbe gestito piccoli esercizi come parrucchieri e barbieri in cui gli inglesi si contano sulle dita delle mani? E che sarebbe accaduto nell'auto senza gli investimenti giapponesi e americani o quelli italiani negli elettrodomestici (Candy, De Longhi e Indesit) per fare solo un paio di esempi? La Gran Bretagna, da sempre strenua sostenitrice del libero scambio, si trova ora nell'imbarazzante situazione di chiudersi a riccio. La crisi economica in atto certamente non aiuta, ma sorprende che un Paese che pareva vaccinato da queste forme di nazionalismo miope sia ora così irritato dalla concorrenza sul proprio mercato del lavoro dopo anni e anni di apertura e benessere per tutti. Dobbiamo senz'altro riflettere su quanto sta accadendo, considerando che quest'anno il commercio internazionale è destinato a crollare verso la crescita zero dopo decenni di sviluppo ininterrotto che hanno tirato fuori dalla povertà almeno un miliardo di persone. In Cina, solo quest'anno, venti milioni di individui, quanto tutta la forza lavoro italiana, rischiano di rimanere per strada. Le crisi spingono la gente a ripiegarsi su se stessa e a chiedere protezione dagli stranieri ai propri Governi. Che vengono peraltro ritenuti responsabili di ogni rovescio nel mondo dell'economia quando le cose si mettono male. Ma anche i politici hanno le loro colpe. Hanno venduto all'opinione pubblica di casa propria l'ultimo ventennio di prosperità come il risultato delle strategie economiche domestiche, mentre il benessere è giunto con lo sviluppo del commercio e degli investimenti esteri. Un fenomeno chiamato globalizzazione, che ha finora sostenuto il mondo sulle proprie ali. Che ha insegnato ai giovani a viaggiare e ad avere fiducia nel prossimo e a provare esperienze impensabili ancora per i loro genitori. I quali ci hanno messo una generazione per uscire dal secolo breve dei nazionalismi, che hanno generato due guerre mondiali e mostri ideologici.