Ai poveri inglesi non resta che aggrapparsi speranzosi alla fiaba raccontata dagli anti-europei sui poteri taumaturgici della Brexit, in virtù della quale il Paese, liberato dalla opprimente burocrazia della UE, “tornerà” a brillare, traendo linfa vitale dai quattro angoli del mondo. Il fatto è che l’economia britannica ha avuto in questi anni un’ottima performance in termini di crescita quantitativa e occupazione stando all’interno della UE . Tenendo conto che ha avuto anche il vantaggio, ostinatamente ottenuto e difeso, di avere una moneta nazionale libera di fluttuare sul libero mercato. Per quanto ottimisti, riesce dunque arduo pensare che fuori dalla UE il Paese possa fare ancora meglio, crescendo a ritmi cinesi.
D’altra parte il problema , malgrado la continua crescita, pare essere qualitativo. In altre parole, il Paese cresce, ma a misura che cresce, crescono i poveri e al loro interno crescono i poveri più poveri. In cifre, secondo quanto reso noto dalla fondazione Rowntree, un rispettato think-tank sulle tematiche sociali, sono ben 19 milioni i cittadini britannici che tirano a campare sotto la soglia della povertà, la cosiddetta MIS (Minimum Income Standard) ossia le 15mila sterline lorde annue per i single e le 18mila sterline per coppia. In percentuale l’esercito e’ passato dal 25% al 30% della popolazione attiva nell’ultimo decennio, ossia da un quarto a un terzo. E ciò malgrado l’impeccabile statistica secondo cui la disoccupazione, al 4,8% (1,6 milioni di persone) è ai minimi storici. Del totale dei 19 milioni di poveri, peraltro, il 57% ossia 11 milioni, vive con un reddito a livello del 75% o meno del MIS ossia con 11mila sterline o meno nel caso dei single e 13mila o meno per le coppie. A riprova che i poveri si sono impoveriti, questo gruppo è aumentato di circa 2 milioni nello stesso periodo.
In altre parole, la piena o quasi piena occupazione è mantenuta a scapito del calo dei redditi reali. Se si guarda ai prezzi del paniere di beni e servizi minimo per sopravvivere, questo è aumentato nell’ultimo decennio del 27-30% mentre i redditi sono cresciuti della metà. Per allargare il paragone alla UE, il think tank dice che, tra il 2010 e il 2013, il 33% (un terzo esatto) della popolazione britannica ha sfiorato almeno per un anno la soglia della povertà, rispetto alla media della “perfida” UE del 25%. Il futuro non pare profilarsi più roseo, se si considera che, secondo le proiezioni della Banca d’Inghilterra, l’inflazione salirà il prossimo anno, complice la svalutazione della sterlina che incide sul rincaro dei beni importati, a un picco del 2,8%, erodendo ulteriormente potere d’acquisto.
Ciò spiega i continui riferimenti del premier Theresa May a un capitalismo compassionevole che riduca la forbice sociale tra i ricchi e i cosiddetti Jam (just about managing, ossia che ce la fanno appena appena). Ma, al di là dell’arguto acronimo (jam vuole dire anche marmellata in inglese, anche se è difficile coglierne un nesso, a meno che si parli di spappolamento sociale) il Governo, al di là degli orizzonti luminosi della Brexit, non pare avere molte armi a disposizione per raddrizzare una situazione allarmante. Le prospettive di bilancio a breve e medio termine sono di un netto peggioramento dei conti pubblici. E la forbice dei redditi all’interno delle aziende tra top manager e impiegati si allarga malgrado la May continui a fare la voce grossa minacciando di porre un tetto alle remunerazioni siderali dei CEO. Colpa della UE? Non mi pare ma è un fatto che davanti a questo crescente deterioramento delle condizioni delle classi basse ciò che resta alla politica è fare del populismo e fabbricare sogni e illusioni.