Chi difenderà i campioni nazionali inglesi?

Knightenglish La vittoriosa scalata della regina americana dei formaggi Kraft alla principessa inglese dei cioccolatini Cadbury ha avuto risvolti curiosi. Per mesi la società inglese ha opposto una strenua difesa, sostenuta da molti inglesi avvolti nella bandiera nazionale in soccorso di ciò che consideravano parte del patrimonio culturale del Paese. Solo una nuova offerta irresistibile ha convinto gli azionisti e travolto ogni resistenza. Ciò che ha reso la storia un poco ridicola è la decisione di tirare una linea del Piave, con tanto di interventi dello stesso ministro dell'Industria Peter Mandelson, su una società scarsamente strategica come un gruppo alimentare. E ciò dopo che decine di società inglesi in numerosi settori (auto, banche d'affari, broker, meccanica, farmaceutica, telecomunicazioni) sono passate sotto bandiere straniere negli ultimi vent'anni. Il motivo del nuovo sussulto d'orgoglio in zona Cesarini è semplice: Cadbury era diventata il simbolo del disagio di un Paese che inizia a domandarsi se non abbia spinto troppo lontano il proprio modello liberista. Un eccesso di apertura al mondo che oggi inizierebbe a costare caro. E i media ora paventano un'ondata di acquisizioni di società inglesi complice la sterlina debole. Le grida di allarme si fanno sempre più forti.


Da mesi infuria peraltro il dibattito sull'opportunità di riequilibrare l'economia britannica, oggi troppo dipendente dalla finanza. Sull'Observer di domenica scorsa c'è stato un bel dibattito tra il noto editorialista economico Will Hutton a il sindaco di Londra Boris Johnson. Hutton sosteneva che, per il bene della capitale, è necessario ridimensionare il peso del settore finanziario e dare maggiore enfasi ad altri settori con incentivi, passando leggi ad hoc e regolamentando maggiormente il settore bancario. Johnson, pur ammettendo che l'arricchimento dei banchieri in questi anni è stato scandaloso, ha aggiunto che non si possono ridimensionare settori economici per decreto o "con metodi cambogiani alla Pol Pot". Aggiungendo che proprio in virtù della finanza il Paese ha una leadership in altri importanti settori come quello accademico, legale, dell'economia della conoscenza  e ha potuto finanziare lo sviluppo immobiliare e culturale della capitale. Il problema è che le banche inglesi hanno oggi un peso assolutamente sproporzionato rispetto all'economia del Paese: sono 10 volte più grandi di quanto fossero negli anni '70 e cio tenendo in proporzione l'economia di oggi con quella di allora. Un fallimento di un settore così ingente manderebbe in rovina il Paese, ma un loro salvataggio, come si è visto, si è dimostrato costosissimo, dell'ordine di 130 miliardi di sterline, pari a quasi il 10% del pil del Paese. Insomma è un esperimento che non si può ripetere una seconda volta, magari tra qualche anno, pena la bancarotta del paese. Dunque è fondamentale cambiare rotta. Ma ci sono le condizioni? Per quanto gli inglesi si siano sempre dimostrati creativi e all'avanguardia nell'innovare sia nei prodotti sia nelle idee, l'aria che si respira in questi mesi è stantia. Non ci sono grandi innovazioni all'orizzonte e in politica il partito conservatore pare più intento a gestire mediaticamente la crisi a fini elettorali con idee rubacchiate qua e là piuttosto che proporsi come portatore di un nuovo pensiero forte. D'altronde questo choc è stato tanto rapido quanto violento e, se è vero che era stato previsto da alcuni profeti di sventura, non ha trovato un novello Kynes in grado di segnare la strada di un nuovo modello di sviluppo. Siamo ancora in mezzo al guado. Come, sul fondo, anche il resto d'Europa lo è. Chissà se gli inglesi, messi all'angolo e con l'acqua alla gola più dei loro cugini continentali non riescano a tirare fuori un nuovo coniglio dal cappello? Dopo il Welfare State del dopoguerra, il liberismo tatcheriano degli anni '80 e il New Labour degli anni '90 è giunto il tempo di pensare nuovamente in grande.