Alle elezioni europee i conservatori e i laburisti britannici hanno subito una terribile batosta, da cui difficilmente potranno rialzarsi. La sconfitta è stata cocente, al punto da evidenziare un trend strutturale, con connotazioni irreversibili. Come mai tanto pessimismo verso i due partiti che hanno dominato la politica britannica per tutto il dopoguerra, dando stabilità al Paese? Non è forse un’interpretazione un po’ troppo catastrofica? Nella vita, in fondo, nulla è veramente irreversibile e spesso, sotto altre forme, le stesse cose ritornano. Dopo il voto dello scorso maggio è difficile però attendersi un cambiamento della nuova situazione venutasi a creare. Almeno per alcuni anni.
E’ vero che si trattava di elezioni europee e che, alle elezioni politiche nazionali, il comportamento degli elettori di regola cambia. Questa volta però, il tema europeo è diventato parte integrante della narrativa nazionale. L’Europa e la collocazione del Regno Unito al suo interno sono ormai una questione capitale, che coinvolge l’elettorato in modo passionale. La visione futura ha toni millenaristici. Da una parte c’è chi paventa la rovina del Paese al di fuori della UE e dall’altra chi, fuori dalla perfida Unione, si prefigura un Paese del Bengodi. Quindi il prossimo voto politico, quando mai avverrà, molto probabilmente, ricalcherà quello europeo di oggi. Queste due visioni inconciliabili hanno spaccato in due i due grandi partiti tradizionali, trascinandoli alla rovina per due motivi opposti: Theresa May, per avere edulcorato la Brexit agli occhi di una base militante e di un elettorato in grande maggioranza a favore del leave (malgrado la maggioranza dei parlamentari Tory sia intimamente per il remain) e Jeremy Corbyn per avere gettato acqua fredda sull’europeismo della grande maggioranza del proprio partito e della stragrande maggioranza dei propri parlamentari. Il risultato è che non soltanto la May, che ha finalmente gettato la spugna, ma anche Corbyn, che resta ancora aggrappato alla sedia, hanno perso autorità presso il loro elettorato. I numeri parlano. Alle politiche del 2017 la May aveva ottenuto il 42,4% dei voti (dal 37% del 2014) e oggi ha raccolto un misero 9%. Corbyn, eletto con il 40% (dal 30% del predecessore Ed Miliband) è crollato al 14%. Sappiamo come è andata: a destra il partito pro Brexit di Nigel Farage ha fatto il pieno, col 32% dei voti, a cui si aggiunge il 3,2% dell’Ukip, un precedente clone di Farage. Nell’altro campo, i liberaldemocratici hanno superato il 20%, i verdi il 12%, il partito filo europeo Change UK il 3,4% e i filo europei scozzesi del SNP e gallesi del Plaid rispettivamente il 3,6% e l’1%. Con questi numeri, detto per inciso, il fronte pro UE del remain puro ha rivelato un consenso del 41% contro un 35% dei leave puro, escludendo la zona grigia del 23% dei voti laburisti e conservatori, in cui si mescolano entrambe le tendenze in modo difficile da decrittare.
Delle elezioni si è già detto e scritto a volontà in questi giorni. A noi interessa individuare un nuovo trend, che mostra un carattere permanente, data l’incapacità ideologica delle due vecchie formazioni di riflettere le esigenze attuali della gente. I conservatori, innanzitutto, favorendo 30 anni di liberismo, hanno polarizzato il Paese, hanno contribuito al deterioramento degli standard di vita delle classi meno abbienti, che non si sono mai ripresi dalla crisi del 2008 e hanno indirettamente creato il terreno per il risentimento che ha alimentato la Brexit. Ora sono lacerati sul futuro del Paese. I laburisti, dopo l’esperienza liberale blairiana, che si è compromessa andando a braccetto con in canoni liberisti che hanno portato alla crisi del 2008, si sono redenti abbracciando la linea paleosocialista incarnata da Corbyn, mal tollerato dalla maggioranza moderata. L’elettorato non ama i partiti divisi e tanto meno con le idee confuse. La batosta di queste elezioni lo prova. Ma la divisione all’interno di entrambe le formazioni rivela lo stato di crisi di valori e orientamenti in cui le due grandi formazioni si trovano in modo ormai strutturale.
Se ci trovassimo ad andare a nuove elezioni politiche in futuro, il sole dell’avvenire sembrerebbe sorridere a liberaldemocratici e verdi. Sono i partiti che in tutta Europa riflettono i temi cari ai giovani e comunque fondamentali per il futuro del pianeta. Il problema in Gran Bretagna è che sono due eserciti senza generali, che occupano lo spazio giusto ma chiedono a gran voce una leadership che non c’è e che, davanti all’abbaiare aggressivo dei populisti, devono fare valere le proprie ragioni con più passione e determinazione. I laburisti, se cambiassero leader e linea, potrebbero probabilmente riprendere voti dalla sinistra libertaria, in caso i liberaldemocratici non riuscissero a tradurre il voto di protesta in un voto di Governo. Il partito della Brexit sarebbe un grande enigma, dato che Farage è un abile commediante, buono per gestire un evento, ma incapace non solo di creare un partito organizzato (si veda la frana del precedente Ukip) ma tanto meno un partito di Governo. Per sua ammissione non ha un programma. Potrebbe l’avvento di un leader Tory di destra come Boris Johnson recuperare i voti persi dalla May? A mio avviso solo in parte, dato che Boris a sua volta è una persona disorganizzata, economicamente incompetente e profondamente divisiva nel partito, dove e’ inviso ad almeno un terzo dei colleghi che potrebbero dare vita a una secessione. Popolare presso la maggioranza degli elettori potrebbe puntare a elezioni ma, per riportare i Tory al 40%, ci vorrebbe un miracolo. In mancanza di elezioni, peraltro, cosi come è composto, il Parlamento britannico ha mostrato di non trovare una maggioranza su nulla, compresa un’intesa per indire un secondo referendum. La strada che il Paese ha davanti a sè è lunga e tortuosa, piena di trappole, tra tutte il rischio di un referendum in Scozia, dove il SNP è tornato ad alzare la voce in modo minaccioso.
Non aiuta peraltro la situazione costituzionale, come rileva l’ultimo The Economist, che ha dipinto in modo molto pessimistico il futuro del Paese. Senza una costituzione scritta, il Regno Unito finora ha funzionato in modo pragmatico, modificando un coacervo di leggi e leggine nella forma, ma mantenendo la barra dritta sulla sostanza, grazie a una omogeneità e condivisione di cultura politica. Davanti alle lacerazioni della Brexit e alle ripercussioni sul quadro politico ed elettorale, col rischio di meltdown dei due grandi partiti e una legge maggioritaria che premia il bipolarismo, in mancanza della bussola di una costituzione il Regno Unito rischia la deriva istituzionale, con profonde divisioni che potrebbero in prospettiva fare figurare, a confronto, le sofferte vicende italiane come un diverbio da ballatoio.