Theresa May e Jeremy Corbyn non sono riusciti a raggiungere un accordo di compromesso sulla Brexit da proporre al Parlamento. Dopo un lungo e infruttuoso negoziato con i laburisti, la premier britannica si prepara dunque a presentare per la quarta e ultima volta all’inizio di giugno il proprio piano con Bruxelles nella speranza che, davanti a un’assenza di alternative reali, essendo esaurito ogni altro percorso, i Parlamentari si mettano una mano sulla coscienza e votino la semi-Brexit pronta e precotta che attende da inizio anno. Le chances che passi sono però minime e quasi certamente la May sarà costretta a gettare il mazzo e dimettersi.
Che succederà dopo la partenza della ostinata ma inconcludente Theresa? il rischio è quello di un crescente caos, fomentato da tre fantasisti: Boris Johnson, Nigel Farage e Jeremy Corbyn. Costoro non solo hanno una visione distorta della realtà, ma hanno tutte le intenzioni di trascinare l’intero Paese in una dimensione di sogno, in cui le leggi dell’economia e della politica verranno sospese per aprire il sipario su un Paese dei balocchi.
Nigel Farage, innanzitutto. Pigro, approssimativo, amante delle buone bevute, demagogo, assenteista al Parlamento europeo – dove è membro da 20 anni con un lauto stipendio – ostile agli immigrati europei, rei di rubare il lavoro agli inglesi, malgrado egli abbia una moglie tedesca, il deputato per la regione del Sud Est, che è la più ricca e più filoeuropea del Paese, ha creato un partito con il solo scopo di promuovere la Brexit a tutti i costi. A giudicare dai sondaggi, ha centrato in pieno l’obiettivo, dato che ha il 35% dei consensi elettorali, distanziando di quasi venti punti percentuali i laburisti e i verdi, che registrano a parimerito un magro 15%. Farage parte da un presupposto sacrosanto, ossia la difesa di un referendum “tradito” (anche se in realtà irrealizzabile), puntando sul tratto nazionale più spiccato degli inglesi, ossia l’orgoglio. Dato che abbiamo votato per la Brexit, è il ragionamento, non si capisce come non sia ancora avvenuta. Poco importa che il referendum fosse consultivo, poco importa che la gente fosse profondamente disinformata, che l’atra metà del Paese resti ostinatamente contro e dovrebbe essere presa in considerazione, poco importa che il Parlamento rispecchi la difficoltà di realizzare una decisione economicamente suicida, contorcendosi in modo inconcludente tra mille acrobazie. A Farage, in fondo, interessa fare casino e tenere i riflettori su di sè. Cosa farà dei voti che otterrà? Li userà semplicemente per cercare di distruggere, dato che costruire non pare essere la sua specialità. Ha già detto che non ha alcuna intenzione di fare il Primo ministro. L’UKIP, il partito che aveva fondato e oggi è ridotto a un mozzicone, gli è peraltro ostile e lo accusa di essere una narciso che pensa solo a sè. Dopo averlo fondato, Farage lo ha infatti lasciato in balia di continui sbandamenti tra cambi di leader, lotte intestine e scandali. Fino alla semi-estinzione. Come un’araba fenice ora è rinato con un’altra formazione tagliata sulla sua misura. Governare e amministrare non è per lui. Da buon ex-broker a lui interessa scommettere e vivere di colpi. L’importante è caricare a testa bassa gli odiati eurocrati.
Boris Johnson. Si, proprio lui, l’ineffabile. Malgrado il fatto che oltre una dozzina dei suoi colleghi si siano candidati alla successione della May, con la premier ancora viva, anche se mortalmente ferita, tutti sanno che sarà lui a uscire vincitore del confronto alla successione. Spiritoso, piacione, genialoide, intuitivo, strutturalmente disorganizzato e pasticcione ma di un’ambizione smisurata, che lo ha portato più volte a contraddire i suoi principi pur di perseguire il potere, Johnson si troverebbe a rappresentare un partito che attualmente striscia nei sondaggi con il 9%. Una tragedia causata dalla May, che era partita con il 42% dei consensi quando venne rieletta nel 2017. Di questo moncherino agonizzante, almeno due terzi dei colleghi parlamentari Tory non lo reggono, anche se è popolare nella maggioranza della base del partito (che ha ormai conta solo 100mila iscritti….) e comunque ha contro oltre la metà del Paese. Come conti di ricucire le lacerazioni all’interno del suo partito ed erigersi al contempo a uomo di Stato sopra le parti, anzi a un patriarca come Mosè, come si era recentemente autoraffigurato, che traghetta il popolo eletto al di là del Mar Rosso verso i lidi della Brexit con gioia di tutti quanti, resta un mistero. Probabilmente, punta sul fatto che la gente non abbia memoria e scopra in lui un nuovo Winston Churchill.
Infine Jeremy Corbyn. La sola possibilità che giunga al potere in seguito a un’implosione dei rivali Tory, sta giá facendo fuggire miliardi e miliardi di sterline di capitali inglesi in direzione dell’Europa. Corbyn è forse l’ultimo leader socialista europeo all’antica, che può trovare epigoni oggi solo nell’America Latina di Maduro. Il suo programma di ri-nazionalizzazioni, in cui liquiderebbe sottocosto azionisti inglesi e internazionali che detengono titoli delle utility privatizzate o banche come la Royal Bank of Scotland, da solo vale un tracollo di Borsa. A cui si aggiunge una pesante tassazione, con aliquote in impennata e una serie di misure paleo-socialiste. A chi lo accusava tempo fa di portare indietro il partito agli anni ’80 ha peraltro risposto che sbagliava, perché in realtà egli vuole andare indietro di un altro decennio. Una interessante coincidenza, dato che nel 1970 il Regno Unito non era ancora membro di quella che era allora la CEE. E alla cui adesione il nostro leader si opponeva strenuamente, perché frutto, a suo dire, di una costruzione troppo liberista. Non a caso una Brexit gestita da Corbyn potrebbe alla fine rivelarsi per molti come lo scenario più da incubo. Delle tre scelte di fuga dalla realtà, in cui gli inglesi frustrati, confusi e scossi, potrebbero rifugiarsi, quella di Corbyn potrebbe nascondere la trappola piú esiziale.