Profittando della sosta tecnica della competizione per la leadership del partito conservatore, che portera’ all’elezione di un nuovo leader e alla nomina del nuovo Primo ministro, ricapitoliamo brevemente che sta succedendo: un Paese a radicata democrazia parlamentare, senza una Costituzione scritta che definisca le modalità di una votazione referendaria, con un Governo conservatore senza una grande coscienza delle implicazioni dell’appartenenza alla UE, decide di indire un referendum che mette in causa il legame quarantennale con l’Unione. Il 51,9% dei votanti, che costituisce però solo il 37% degli aventi diritto di voto, si esprime per la Brexit. Poco più di un terzo degli elettori prende dunque una decisione cruciale per le generazioni a venire.
Durante la campagna elettorale, la stragrande maggioranza degli esperti economici e politici, oltre che la grande maggioranza delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali, considerano la Brexit una follia: danneggerà l’economia del Paese e ridurrà il peso geopolitico del Regno Unito sullo scacchiere internazionale, oltre a ridurne il peso in Europa dato che Londra uscirà dalla stanza dei bottoni rischiando di subire le decisioni di Bruxelles. I fautori della Brexit, sostenuti da una campagna a tappeto dei grandi gruppi editoriali, che fanno leva sulla frustrazione della gente dopo un decennio di quaresima dovuta alla austerità seguita alla crisi finanziaria (causata paradossalmente dagli eccessi liberisti generati dal pensiero conservatore), promettono l’Eldorado. Il Regno Unito, a loro detta, riprenderà il controllo del proprio futuro, potrà firmare trattati commerciali a suo piacere e tornerà al centro del mondo “scolpendone il destino”, come ancora un paio di giorni fa affermava un deputato pro-Brexit.
L’indomani del referendum si manifesta dunque uno scollamento di rappresentanza tra i parlamentari a Westminter, che sono oltre il 60% contro la Brexit (58% i conservatori e 90% i laburisti) rispetto agli elettori, in lieve maggioranza a favore. Si pone anche un problema di coscienza. A un parlamento di remainers viene infatti chiesto di implementare il divorzio. Anche dopo le elezioni del 2017, con qualche piccola differenza, la rappresentanza parlamentare mandata a Westminster dagli elettori resta in buona maggioranza composta da remainers. In coscienza, la maggioranza dei parlamentari, che nelle democrazie rappresentative sono eletti dal popolo proprio per metabolizzare e risolvere materie complesse, sanno che una hard Brexit é inapplicabile per i danni che causerebbe. Da qui nasce un problema di fondo, che ancora oggi è irrisolto. Il Parlamento insomma è chiamato a realizzare qualcosa che in fede sa non essere realizzabile. La May, cosciente di dovere ammorbidire i lati piu’ pericolosi di una hard Brexit, negozia con Bruxelles un compromesso che riesce a far passare al proprio Governo, almeno nel breve periodo. Presto però emerge che una soft Brexit , in cambio di un ritrovato margine di manovra rispetto alla UE, crea un rapporto di dipendenza con la UE, dato che Londra deve in futuro subirne la legislazione senza poterla più influenzare. La destra del partito Conservatore si rende conto di rischiare di perdere consensi con la base elettorale pro-Brexit e prende le distanze, con dimissioni illustri dal Governo come Boris Johnson, David Davies oltre ad altri deputati minori. Inizia una spaccatura insanabile nel partito di Governo. La decisione della May di mantenere la dialettica decisionale entro il Governo, compromette i rapporti con l’opposizione al punto da metterla in un vicolo cieco.
Ciò che emerge ora chiaramente, dopo le dimissioni della May e in attesa della nomina di un nuovo leader conservatore, che diverrà automaticamente il nuovo primo ministro, è che i termini della questione non sono cambiati. E che chiunque prenderà le redini del partito si troverà con lo stesso copione su cui recitare. Cambieranno gli attori ma la tragicommedia resta la stessa.