La forza della Grande Recessione che stiamo attraversando lascia poco margine di manovra alla politica. E, in vista delle elezioni generali del prossimo 7 maggio, la campagna elettorale in Gran Bretagna non riesce per nulla a ispirare. Sul fondo, la gente sa che nessuno ha la bacchetta magica per risolvere la crisi e che la montagna di debiti accumulata sarà ancora lunga da smaltire. Il Governo Cameron si proponeva di annullare al suo insediamento nel 2010 i 150 miliardi di debiti ereditati dalla crisi nel corso della legislatura e, a conti fatti, siamo oggi poco sotto i 100 miliardi. L’economia è tornata a crescere e il ritmo di circa il 2,5% nell’ultimo anno, che è certamente lusinghiero e la disoccupazione è calata al 5,7% un dato senz’altro ragguardevole, ma molti posti di lavoro restano mal pagati e l’effetto benessere sulla popolazione in generale è di là da venire, anche se è un fatto che è meglio di avere un lavoro mal pagato che nessun lavoro.
Il Governo che uscirà dalle urne sarà quasi certamente un Governo di coalizione. I laburisti e i conservatori sono testa a testa nei sondaggi a quota 33-34% e in caso di vittoria dei primi si prospetta la possibilità di un Governo di coalizione con i nazionalisti scozzesi, che hanno già escluso di lavorare con i Tory, e i liberal-democratici. I liberal-democratici (9% nei sondaggi) sono anche aperti a collaborare con i conservatori, ma questa volta da soli non bastano più dato che potrebbero dimezzare i loro seggi dai 57 attuali. Per il premier uscente David Cameron sarà dunque importante capire quale sarà l’atteggiamento del nazionalista UKIP di Nigel Farage che resta al momento il terzo partito col 14%.
Nel momento del bisogno ci si attende dalla politica grandi visioni, ma questa crisi ha tagliato le gambe a tutti. Tutti hanno il fiato corto e ricorrono ad acrobazie lessicali, che lasciano la gente indifferente. Così ci troviamo davanti alla rincorsa a temi selettivi come l’immigrazione per l’UKIP o alla gara tra conservatori e laburisti a non essere se stessi. I Tory si stanno sbracciando per provare di essere il partito di lavoratori e classi medie promettendo qualche (piccola) concessione sulla tassa di eredità, sostegni ai giovani e stabilità che riporterà il benessere ma su basi più solide. I laburisti che da un lato fanno il muso duro con i ricchi promettendo di cancellare lo statuto di non domiciliati per gli stranieri benestanti e una patrimoniale per gli immobili dal valore al di sopra dei 2 milioni di sterline, giurano d’altra parte che la loro formula di Governo sarà fiscalmente virtuosa. Risultato in soldoni, come faceva notare il commentatore politico del Financial Times, Philip Stephens, tra i due ci sono solo due anni di differenza nella promessa di portare in pari il bilancio: 2018 per i conservatori e 2020 per i laburisti. Poca roba. Secondo il FMI d’altronde difficilmente il Governo, quale che sarà, riuscirà a fare quadrare il bilancio anche entro la prossima legislatura.
Quanto ai liberal-democratici, che fanno le contorsioni per distinguersi (spenderanno più degli altri nell’educazione), il loro leader Nick Clegg, aperto a tutti i giri di valzer, ha promesso di portare più cuore in un Governo conservatore e più testa a uno laburista, dando forse inconsapevolmente degli svitati ai loro potenziali alleati di sinistra.
In una situazione come questa, come faceva notare recentemente il politologo Vernon Bogdanor, i manifesti elettorali dei partiti, che tanto piacciono a noi italiani che non ne possiamo più dell’approssimazione, dell’irresponsabilità e della battuta o battutaccia con cui fa campagna la nostra classe politica, valgono in queste elezioni particolarmente poco. Bogdanor faceva notare come anche i manifesti più importanti del passato non siano mai stati rispettati. E che comunque non hanno particolarmente senso oggi date le incertezze dell’economia e dal momento che chi vota non li sottoscriverà mai per intero e si risolvono dunque in una sorta di impossibili impegni referendari con la differenza che all’elettore non viene posta un’alternativa chiara e univoca come ai referendum.
Mai come oggi dunque conta l’immagine, la battuta, la frase, la trovata accattivante che ti fa guadagnare mezzo punto nei sondaggi. Ma sul fondo poco cambia. I grandi temi politici come la possibilità di una scissione della Scozia o di uscita del Regno Unito dalla UE restano. Nel primo caso il pericolo è più remoto dato che il recente referendum vinto dagli unionisti dovrebbe teoricamente seppellire il problema per una generazione. L’uscita dalla UE per molti improbabile allo stato dipenderà però molto dai risultati dell’UKIP, dai mal di pancia dei conservatori, dall’atteggiamento della stampa antieuropea che è dominante e dalle condizioni generali dell’economia. Quando si ha la pancia piena le questioni di principio si accantonano. Ma allora torniamo al punto di partenza: le forze profonde della crisi devono essere imbrigliate. E allo stato attuale la politica non ha una soluzione credibile al problema.