In attesa del passo fatale del 31 ottobre, data entro la quale il popolo britannico dovrà decidere una volta per tutte se vorrà lasciare la UE, una cosa è certa: nel regno vegetale, numerosi frutti e ortaggi hanno già preso la decisione di ammantarsi della Union Jack con una netta scelta di … campo. Sempre più capita di vedere nei supermercati o nei mercati rionali verdura e frutta etichettata con la bandiera nazionale con scritte del tipo “proudly British” “big on British” “from Britain with love” e altro. Le pubblicità crescono, con alcune scritte a caratteri cubitali. Per quanto riguarda le carni, in particolare quella bovina, non è una novità: la Gran Bretagna ha una grande tradizione di allevamento, anche se l’Angus beef, per onore di cronaca, vien dalla Scozia, che sulla Brexit persegue un’agenda nazionalista separata. Ma quella della frutta e verdura nazionalista mi pare una interessante innovazione.
Personalmente, non posso che applaudire la decisione degli inglesi di dedicarsi nuovamente ai campi, anche perché il Paese non manca di ottimi ortaggi come gli asparagi del Kent, patate di ogni genere, cavolfiori, cavoli, compreso ora quello nero mutuato dall’Italia, ottime insalate, piselli, fagioli e fagiolini, oltre a una gamma di mele e pere che é certamente più ampia che nel nostro Paese. Per non tacere i frutti di bosco, che abbondano ovunque, con le fragole regine incontrastate, ora che entriamo in piena stagione. Ciò che mi fa specie, è questa scoperta tardiva da parte di un Paese che ha sempre importato tutto, comprese le melanzane, le zucchine e i pomodori, tipici prodotti mediterranei, dalle serre dell’Olanda. Se i pomodori li producono in Olanda, mi sono spesso domandato, che ha un clima ben peggiore dell’Inghilterra, semplicemente grazie al ricorso alle serre, come mai gli inglesi non ci pensano? Da alcuni anni, anche in virtù del contributo di mano d’opera buon mercato di Paesi come Polonia, Bulgaria e Romania, che tra l’altro è stata una delle principali cause scatenanti della Brexit, gli inglesi paiono avere ripreso l’iniziativa producendo per conto proprio. E nei supermaket da alcuni anni compaiono i pomodorini Made in England (con il generoso aiuto degli immigrati europei..).
Non è cosa da poco, considerando che fino a non molti anni fa gli inglesi non davano grande peso alla qualità del cibo, prediligendo il fattore prezzo. Scandali come la mucca pazza o l’afta epizootica delle pecore sono nati proprio dalla scelta di alimentare i bovini con mangimi scadenti per comprimere il prezzo della bistecca, o risparmiare sull’igiene. Quanto a frutta e verdura, l’Inghilterra ha semplicemente importato prodotti da ogni parte del mondo per secoli. Il Paese che ha inventato il libero scambio, che vanta uno dei padri della teoria economica, David Ricardo, noto per la teoria del vantaggio comparativo (in breve ognuno esporta quel che fa meglio e importa quel che fa peggio) ha abbandonato, a volte anche eccessivamente, ogni velleità di produrre in proprio per importare e tenere i prezzi bassi al supermercato, interpretando in modo radicale il libero scambio. Bastava andare non molti anni fa in un supermarket in Svizzera o Francia per vedere come molti prodotti locali (meno buoni) fossero promossi a discapito di quelli esteri importati quando non fossero importati del tutto (vino in Francia e frutta in Svizzera per esempio). Una forma di protezionismo impensabile in Gran Bretagna, abituata dai tempi dell’impero a importare prodotti esotici da tutto il mondo.
Alle ultime battute finali della campagna elettorale in Italia per il Parlamento europeo, ho peraltro sentito il vicepresidente del consiglio Matteo Salvini incoraggiare gli Italiani a comprare cibo nostrano. All’inizio ho colto con ironia questa iniziativa un poco anacronistica, ma poi ho realizzato che questo aspetto un poco autarchico non poteva mancare nell’armamentario dei partiti populisti. Premesso che sono felicissimo se il nostro Paese è in grado di produrre quanto più possibile prodotti agricoli di ottima qualità che soddisfino la domanda interna, ho fatto due rapidi conti e sono arrivato alla conclusione che purtroppo, se ognuno tornasse a mangiare solo ciò che produce e abolisse le importazioni alimentari, gli scaffali dei supermercati sarebbero quasi vuoti. Un’iniziativa di giovani tedeschi ha fatto tempo fa un esperimento in Germania in un supermarket, reso più spoglio di un grande magazzino bulgaro sotto il comunismo, per provare alla clientela cosa resta da comprare al netto del cibo importato.
Lo stesso ragionamento vale peraltro per molti prodotti di vestiario, giocattoli, cosmetica e un’infinità di altre cose che potrebbero costare anche dieci, venti volte tanto se tornassimo a produrcele da noi. Con il risultato che torneremmo a vedere i poveri con i piedi scalzi per le strade o malati di polmonite d’inverno per mancanza di vestiti caldi. In un mondo globalizzato l’autarchia è ormai impossibile perfino in Afghanistan, dove mi capita di andare per motivi umanitari e trovare sempre più prodotti stranieri che stanno migliorando il tenore di vita. Il bello del populismo rispetto a quello che fu il fascismo, è che in fondo non ha bisogno di ammantarsi di teorie che applicate in pratica ci hanno portato alla rovina della Seconda Guerra, ma di buttare là spezzoni di pensieri in libertà, senza alcun bisogno di congruenza, confidando nell’emotività di un elettorato distratto e arrabbiato che sta perdendo sempre più il senso dell’insieme a causa della frammentazione dell’informazione. Persone a cui si lanciano messaggi con l’obiettivo di avere effetti immediati e destabilizzanti per ottenere vantaggi politici a breve, senza guardare agli effetti a lungo termine. E in questo caso, in effetti, se continuerà a crescere il nazionalismo e con esso le tensioni commerciali e l’ostilità tra Paesi, bisogna avere il coraggio di dire alla gente che il risultato finale logico e coerente rischierà proprio di essere la miserrima autarchia.