Ignorare e negare. Con questi due imperativi ficcati chiari in testa i conservatori britannici hanno per oltre due secoli nutrito un atteggiamento di distacco verso il prossimo che ha permesso loro di reggere le sorti del mondo senza porsi troppi quesiti. I due imperativi hanno fatto da robusto isolante verso le critiche o le minacce provenenti dall’esterno, permettendo ai leader di turno di tirare dritti per la propria strada, a volte in modo temerario, convinti delle proprie ragioni. Da Wellington alla Thatcher, passando per Churchill, i Tory hanno sgominato Napoleone, il nazismo e lo statalismo che pareva ingolfare l’Europa. Ogni battaglia degli ultimi due secoli li ha visti dalla parte vincente. Sulla scorta dell’illuminismo, del metodo scientifico e del pragmatismo, il loro approccio ha avuto letteralmente ragione del fanatismo, di destra o di sinistra, percorrendo un sentiero esistenziale di buon senso, fondato sull’utilitarismo e la ricerca del benessere materiale sotto l’imperio della legge, la cosiddetta rule of law. Il loro atteggiamento verso i dittatori o le idee forti, se non addirittura la stessa filosofia continentale, è sempre stato improntato a diffidenza. Con le armi dell’analisi, del calcolo e della semplificazione, lo spirito britannico ha cercato regolarmente e noiosamente di smontare teorie ritenute fantasiose o romantiche. Davanti al nazionalismo rampante precedente la Seconda Guerra, basato su miti e leggende e teorie pseudoscientifiche , in cui ogni Paese si inventava un passato leggendario per galvanizzarsi e prepararsi allo scontro, il vecchio impero commerciale pluricontinentale ha saputo mantenere il sangue freddo e la barra dritta, lottando per la libertà. Questo splendido isolamento intellettuale, ha peraltro alimentato cinismo, complessi di superiorità e, appunto, negazionismo, nel senso di ignorare il prossimo e non mettere in causa i propri limiti. Un meccanismo di autodifesa che ha dato forza ulteriore all’ostinazione dei grandi leader in momenti di avversità.
Tutto questo è cambiato, da quando è entrata in scena la tragicommedia della Brexit. Una rappresentazione che ha peraltro radici lontane, almeno nell’ultimo quarto di secolo. Innanzitutto l’approccio utilitarista è entrato in crisi, con l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia. Se le privatizzazioni hanno inizialmente esercitato un effetto tonificante sull’economia, stimolando lo spirito imprenditoriale, verso la fine degli anni ’90 gli eccessi finanziari hanno aperto la strada a una delle più gravi crisi economiche da quasi un secolo. Se lo statalismo degli anni ’70 e ’80 pareva ingessare l’Europa, il rimedio liberista successivo, dopo i successi iniziali, ha causato forti danni. Un parto teorico conservatore per la prima volta si è mostrato palesemente errato. I tory non stanno più dalla parte vincente. Al punto che la signora May ha fatto ora marcia indietro, parlando di necessità di intervento dello Stato nell’economia, di capitalismo compassionevole e di bisogno di inquadrare entro strette regole la City. Ma questa autocritica si è fermata a metà del percorso. Non ha infatti preso atto di politiche sbagliate, come l’assenza negli ultimi 30 anni di scuole di qualificazione professionale che potevano salvare le classi basse inglesi con un rilancio dell’artigianato. E poi ha mantenuto un totale negazionismo di fronte al tema dell’economia di mercato. Dopo avere predicato il libero scambio, dopo avere chiesto un approfondimento del mercato unico UE, una liberalizzazione della finanza, un allargamento ai Paesi dell’Est, i Tory (la parte della destra isolazionista che ha tra i rappresentanti gran parte dei liberisti thatcheriani) hanno deciso di gettare tutto alle ortiche e ritirarsi dalla UE. Hanno sconfessato la creatura che hanno contribuito in grande parte a creare. Al punto che, paradossalmente, il leader laburista Jeremy Corbin è a sua volta a favore della Brexit avendo un passato anti-europeo per il motivo opposto, ossia critico di un’organizzazione votata al mercato e contro gli interessi delle classi basse.
Durante la campagna referendaria, i Tory pro-Brexit hanno peraltro ignorato o beffeggiato la massima parte di economisti e istituzioni che si erano schierati per il Remain, adducendo ragionevoli elementi scientifici. Leaders Tory come Michael Gove hanno detto chiaramente di farsi un baffo della ricerca economica. Così, nel Paese del pragmatismo razionale, bandiera dei vecchi conservatori, ci troviamo ora davanti al romanticismo fantasioso dei Brexiters il cui approccio essenzialmente è quello di gettare il cuore oltre l’ostacolo alla garibaldina. L’atteggiamento negazionista, che in questo caso si applica in difesa di un approccio passionale e preconcetto, pare peraltro proseguire imperterrito. E’ ormai un mese che Bruxelles cerca di fare capire agli inglesi che se escono dalla UE non possono godere dei vantaggi che avevano in passato. Ma, a sentire dal dibattito, peraltro ossessivo, da questa parte della Manica, alla fine Londra riuscirà nell’intento di < have the cake and eat it > (noi diremmo avere la botte piena e la moglie ubriaca) come ha detto il fantasioso ministro degli Esteri Boris Johnson. Secondo i negazionisti tory, il Regno Unito è troppo importante per l’Europa perché questa si metta in rotta di collisione. Fa piacere notare che numerosi conservatori stiano mantenendo un atteggiamento ostinato churchilliano. Il fatto è che qui non si combatte una battaglia per salvare la civiltà, ma si sta negoziando l’uscita del Regno Unito dalla UE. Un’uscita che i Tory, con le idee più confuse che mai, vogliono che esista in modo plateale nella forma ma venga negata nella sostanza su quasi tutta la linea. Un pensatore pragmatico e razionale dovrebbe capire che il cerchio non lo si può quadrare.