Nell’epoca del maltrattamento delle parole e del loro significato, come gli alternative facts o la post truth, tratte dal lessico degli spin doctors per stendere un velo pietoso sulle “bugie”, si sta facendo largo molto più pericolosamente un ossimoro (la combinazione di due concetti dal significato opposto, con l’effetto di creare un paradosso ndr) ossia l’idea che il nazionalismo possa avere un risvolto internazionale, che è logicamente la sua negazione. Perché questo concetto funzioni, è necessario non porsi troppe domande e lasciarsi cullare entro una cortina fumogena che offusca la ragione. Ne abbiamo avuto la prova una settimana fa con il maxi raduno a Coblenza, in Germania, dei partiti della destra europea che, a poche ore dall’insediamento di Donald Trump negli USA, hanno celebrato le forze primordiali scatenate dal presidente americano, destinate a creare un effetto insurrezionale in Europa occidentale dando vita a una “primavera patriottica”.
La francese Marine Le Pen, l’olandese Geert Wilders, l’italiano Matteo Salvini, la tedesca Frauke Petry hanno fatto fronte comune con un raro sfoggio di unità contro le nefandezze dell’Europa liberale, la sua scellerata politica d’immigrazione e i danni della globalizzazione. Niente da dire sulle loro buone intenzioni. Ciò che risulta difficile da comprendere è come il loro progetto potrà proseguire oltre i confini nazionali nell’unità di intenti sfoggiata inizialmente. Il nazionalismo infatti porta con sè protezionismo, trinceramento entro i confini, autoritarismo, diffida degli stranieri e dei diversi. In una parola, è un’estensione del concetto di egoismo su ampia scala. Davanti alla paura del futuro e dell’ignoto, si serrano i ranghi tra simili e si diffida di tutto quanto è “foresto” per usare una nostra fortunata espressione dialettale. Il nazionalismo sfocia inevitabilmente sul rafforzamento dei “controlli”, porta a leader forti e nei casi peggiori a dittature e autarchia sul piano economico. E’ successo mille volte in passato, dalla caduta dell’Impero Romano alla fine della Belle Epoque (la prima ondata di globalizzazione all’inizio del XX secolo) sfociata sui nazionalismi e guerre, facendo leva sulla demonizzazione dei diversi, fossero essi ebrei, zingari o semplicemente gli abitanti di una nazione oltre confine da “punire”.
Il nuovo rigurgito nazionalista potrà avere buon gioco nella sovversione dell’ordine esistente, funzionando come una forza distruttiva, ma mi riesce difficile concepire come potrà costruire un nuovo ordine, tenendo conto di come il mondo è cambiato negli ultimi 40 anni sulle ali della tecnologia e della liberalizzazione dei mercati. Inoltre, mi pare una risposta arcaica e anacronistica in un mondo in cui tutti sono abituati a comprare merci a buon mercato (perché prodotte in Paesi in via di sviluppo e importate con poche barriere doganali) sono incollati al loro telefonino connesso con la rete globale e abituati a viaggiare ai quattro angoli del mondo. La tecnologia, peraltro, sta demolendo a ritmi accelerati posti di lavoro, al punto che molti prevedono che entro 50 anni decine di milioni di persone che non si sono riuscite a riciclare ai piani alti dell’innovazione economica dovranno campare sulle spalle della comunità con una specie di reddito o pensione di cittadinanza. A prima vista sembra una cuccagna, ma personalmente penso che sia una tragedia dato che una buona parte dell’umanità sarà pagata per menare una vita inutile. Il che non è sostenibile. E ha poco a che fare con la tentacolare Unione Europea.
Come si potrà cambiare un mondo che funziona comunicando per linee orizzontali in uno antico, diviso verticalmente per Paesi? Quali effetti avrà sull’economia? A questo proposito mi è parsa illuminante la vista del Premier britannico, Theresa May, al presidente Trump. Malgrado gli sfoggi di unità, i sorrisi e le strette di mano l’incontro mi è parso una commedia degli equivoci tra i due leader del mondo anglosassone, quello che sulle ali della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica ci ha “ridotti” come siamo. Ora tutto cambia, ci dicono. Si fa dietro-front e ognuno si arrangi come può. Trump, peraltro, forte di un Paese di 320 milioni di abitanti che, per quanto acciaccato, possiede ancora una forte industria e agricoltura, ha deciso di giocare la carta del nazionalismo e del protezionismo. Secondo la maggioranza degli economisti impoverirà il Paese, ma il tentativo per certi versi può funzionare. La Gran Bretagna, che è un Paese basato sul commercio e la globalizzazione e ormai produce ben poco in proprio risulta invece un mistero. Chiamata a gestire la Brexit la signora May continua a prodigarsi in acrobazie lessicali e contraddizioni logiche per vendere il nuovo corso agli inglesi. I quali vengono convinti che, dopo avere tratto il meglio dall’appartenenza alla UE (sono stati i paladini del mercato unico e dell’allagamento a Est che ora rinnegano con sdegno) fuori dalla UE potranno prosperare ancora di più. La Gran Bretagna ha interesse che la NATO funzioni e al vertice col presidente USA la May ha detto che Trump (che ascoltava in silenzio) < appoggia al 100%> la struttura militare occidentale. Ma dei pensieri intimi di Trump nessuno per ora sa. Ha poi ammesso che sulla Russia ci sono divergenze di vedute dato che gli inglesi vogliono che restino in vigore le sanzioni. Ha parlato di futuri accordi commerciali con gli USA tutti da provare e si è fatta paladina delle classi deboli, quelle che la globalizzazione (promossa dai suoi colleghi conservatori) ha messo fuori mercato. Tutto e il contrario di tutto.
Intanto Trump, a cui non si può di certo rinfacciare l’incoerenza, ha continuato a procedere come un trattore smantellando l’accordo trans-pacifico che avrà come effetto di gettare l’Asia tra le braccia della Cina, ha attaccato il Messico, avvelenando il clima col vicino di casa, altrettanto ha fatto con l’Iran, ha chiuso o reso semi-impenetrabili le frontiere a molti Paesi islamici, ha diffidato le industrie Usa dall’andare a produrre all’estero. Tutti ingredienti del nazionalismo classico che usati dal Paese più potente del pianeta stanno dando il via a un processo di disintegrazione di decenni di buoni rapporti internazionali tra Paesi, uniti nell’intento di commerciare insieme. E siamo soltanto all’antipasto.