Molto probabilmente, la fine del mondo non verrà dall’impatto di una meteora con la vecchia Terra o da un cataclisma naurale che non potremo prevedere e contro cui non potremo fare nulla. La fine, o almeno un collasso della nostra civiltà, sarà fatto in casa, ossia prodotto da noi stessi. E contrariamente alle aspettative, non proverrà da un disastro ambientale causato dalla gestione dissennata delle nostre risorse, ma più semplicemente da un tracollo della rete, che potrebbe mandare con le spalle al muro i sistemi informatici e di connessione che ci permettono di vivere in una società sempre più complessa. Catena di rifornimento alimentare sovvertita, sistemi bancari in tilt, trasporti al collasso, email e memorie elettroniche danneggiate, potrebbero mettere rapidamente in ginocchio un intero Paese. Non è un caso che si parli sempre di più di guerre cibernetiche invece che convenzionali.
La nostra società vive ormai grazie a una complessità tecnologica crescente che, a misura che si espande, aumenta la nostra fragilità e dipendenza. La rete, che è nata con l’obiettivo di semplificarci la vita, ci costringe sempre più a un confronto serrato con un crescente numero di mansioni e operazioni che ci imprigionano in una ragnatela di impegni ineludibili. Il problema è che questa crescita pare sempre più fuori controllo. Per fare un esempio professionalmente a me vicino, il proliferare di fake news, semplicemente le notizie false (ultima, poco fa, la morte della regina Elisabetta), aumenta in modo crescente l’incertezza e la sfiducia di chi le legge, alimentando un forte senso di insicurezza verso il prossimo. L’eccesso di informazione diventa il terreno più fertile per alimentare la disinformazione. La finanza col turbo sulle ali degli algoritmi e dell’elettronica ha mandato in crisi il sistema capitalista in cui viviamo. La stessa politica, come ha provato la recente campagna elettorale americana, si articola sempre più in zone grigie di mezze verità, post verità se non panzane vere e proprie in cui pescano nel torbido i servizi segreti.
In un mondo in cui tutti possono fare i giornalisti, nessuno può più dare serie garanzie professionali, in cui tutti possono lanciarsi in politica, ci troviamo di fronte a una crescente legione di manipolatori e dilettanti allo sbaraglio che imparano il mestiere sulla pelle degli elettori che hanno loro creduto. In un mondo in cui la cosiddetta gente pare essersi finalmente emancipata dalle elites che vivono di trame oscure nei mezzi e fini, entrano in scena persone sempre più spregiudicate che promettono si risolvere tutto in quattro e quattr’otto.
Il paradosso in cui viviamo è che in un mondo di crescente complessità che avrebbe bisogno di professionisti per gestirle, la gente, incalzata dalla paura e dall’insicurezza crescente dell’ambiente in cui vive, cerca risposte semplici che solo i populisti possono dare, dipingendo la realtà in bianco e nero e preparando il terreno a “uomini del destino” come rischia di essere Donald Trump. Un recente articolo di John Harris sul quotidiano The Guardian ricordava come tutte le grandi civiltà, non appena sono diventate troppo complesse al punto da fornire rendimenti decrescenti (ossia più pene che vantaggi) hanno iniziato a sfaldarsi proprio dalle periferie, che hanno iniziato a reclamare per prime autosufficienza e autonomia. Più si è vicini al cuore dell’impero con la sua complessità e più questo è potenzialmente fragile.
Il caso della Brexit pare adattarsi a questo filone si pensiero. La complessità dell’Unione Europea, per quanto abbia portato pace e prosperità senza precedenti per decenni, non pare ormai più essere all’altezza del servizio, diventando oggetto di critiche crescenti. Un Paese alla periferia (la Gran Bretagna) fa secessione sulle ali di un populismo semplificatorio, salvo poi rendersi conto quanto si stia rivelando difficile dipanarsi da tanta complessità col rischio che i danni della Brexit superino i benefici. Finora non ci sono precedenti a un esperimento come questo. Dal prossimo anno inizia una nuova avventura.