Il giorno di Natale mi pare il più adatto per fare alcune riflessioni sui profondi cambiamenti del mondo del lavoro, specie dei giovani Millennials, quelli nati negli anni ’90. Ebbene, la costatazione che salta prepotentemente all’occhio è che l’esercito di coloro che fanno lavori casuali si allarga a macchia d’olio. A Londra, le immagini di ciclisti con vestiti eccentrici e variopinti o i motociclisti di Deliveroo, la società in forte crescita di consegne a domicilio, sono sempre più frequenti. Le statistiche peraltro confermano: nella capitale britannica gli operatori nel settore delle consegne è salito dal 2010 al 2016 da 38mila a 65mila persone.
Ma le consegne a domicilio non sono che la punta dell’iceberg di un settore che nel Regno Unito coinvolge oggi oltre 5 milioni di lavoratori che comprendono i trasporti di merci e persone, il giardinaggio, le pulizie, i dog-sitter, ma anche le traduzioni, lo sviluppo del software e il graphic design. Se questi ultimi tre sono lavori più de-localizzabili, nel senso che possono essere svolti in qualsiasi parte del mondo, gli altri sono fortemente radicati al territorio e dunque “tradizionali” nel reperimento di manodopera.
Sono lavori principalmente per giovani come si diceva. Un recente studio della European Foundation for Progressive Studies svolto in cinque Paesi europei (Svezia, Olanda, Austria, Germania e Regno Unito) nota che circa la metà degli operatori ha meno di 35 anni (con una punta del 57% in Svezia e un minimo di 42% in Olanda) ma una proporzione rilevante si trova anche tra la gente anziana, con più di 55 anni di età (11% in Svezia e 17% in Olanda a parti rovesciate). Il dato interessante però sta nel fatto che circa il terzo restante rappresenta la popolazione in piena età lavorativa. Il che significa che i lavori casuali non sono solo per giovani alle prime armi in cerca di lavoro o anziani che decidono di arrotondare la pensione. In effetti, il 9% dei lavoratori britannici e il 19% di quelli austriaci dipende interamente da questo tipo di lavoro.
Ciò che ci interessa stabilire il giorno di Natale è se questo genere di lavoro, che va sotto il nome di gig economy, nobilita o limita. Il nome deriva dalla gig, in musica, l’esibizione, la comparsata, l’evento. A prima vista, guardando l’esercito di giovani ciclisti dagli abiti colorati e i toni un po’ hippy, parrebbe un lavoro libero e creativo. I datori di lavoro come Uber e Deliveroo mettono peraltro in chiaro che i loro collaboratori sono liberi professionisti che si avvalgono delle loro piattaforme tecnologiche e non vanno visti come impiegati. In altre parole, io professionista mi convenziono con una serie di app e quando mi va di lavorare parto con la lancia in resta e smetto quando mi pare e piace.
A guardare bene, purtroppo, a parte la libertà dei tempi di lavoro, tutto il resto è un’apparenza. Infatti, la stessa libertà di chi opera nella gig economy è apparente. La recente sentenza di un tribunale del lavoro inglese emessa contro Uber infatti stabilisce che i “collaboratori” sono infatti da assimilare a dipendenti a tutti gli effetti a cui devono essere riconosciuti dunque vacanze, assicurazioni malattie e altri diritti basilari. In effetti, la forza distributiva della piattaforma tecnologica rende i collaboratori non cosi liberi, specie se poi in caso di inefficienza o cattiva prestazione possono essere esclusi dalla stessa piattaforma. Peraltro molti lavoratori della gig economy (vedi mio precedente articolo Uber contro Uber) raggiungono a malapena l’equivalente del salario minimo garantito i 7,20 sterline l’ora solo lavorando molte ore al giorno.
Izabella Kaminska, una giornalista del Financial Times, che ha passato vario tempo nel mondo della gig economy arriva peraltro alla conclusione che si tratta di lavori mercenari e occasionali che distruggono lo spirito di vecchi lavori tradizionali (come il camieriere), che una volta venivano compiuti con orgoglio come una vera professione anche in età matura, ma che oggi sono completamente disintermediati. Il problema è l’aspetto avventizio del nuovo tipo di lavoro, per cui, spesso, chi lo svolge non è sufficientemente qualificato e, dato che cambia sovente mansione, è una sorta di perenne dilettante, purtroppo non sul fronte del diletto per se stesso, ma della scarsa professionalità verso il cliente. Infine, secondo la Kaminska, questo tipo di lavoro porta alla scomparsa della “mancia”, come è capitato nel caso più eclatante di Uber, dove l’autista non tocca danaro, che viene trasferito direttamente dal cliente alla società. Secondo la giornalista, la mancia in effetti è un modo per il fruitore della prestazione di esprimere soddisfazione per un lavoro svolto meglio da un operatore piuttosto che da un altro. Al posto di avere maggiore libertà non viene premiata la differenziazione della prestazione. Un esempio eclatante è il caso dell’autista scrupoloso che torna apposta al domicilio del cliente per recapitargli i guanti che aveva lasciato sul sedile. O quello che si adopera per trovare il percorso migliore senza seguire pedissequamente il navigatore. L’unico modo di risolvere il dilemma è dare dei contanti in “nero” all’autista. Ma ciò va allora contro l’intera filosofia della prestazione.
La domanda finale è comunque la seguente: sia per il prestatore d’opera che per il cliente è meglio un’economia piena di “comparse” che svolazzano da fiore a fiore sulle ali delle app o di attori professionisti? Verrebbe spontaneo pensare a questi ultimi, ma è un fatto che questi sono ormai una specie sempre più in via d’estinzione.