La Brexit, alla prova dei fatti, appare sempre più un esercizio difficile, se non impossibile. E l’impressione che si sta facendo strada con sempre maggiore evidenza è che gli inglesi saranno obbligati a un’uscita dolorosa, una “hard Brexit” come molti la definiscono. Ciò che appare infatti è che il Regno Unito nel suo Dna è molto più legato alla UE di quanto nessuno potrebbe immaginare. Il paragone con una ragnatela è infatti troppo lieve e forse il più calzante è quello di un’amputazione o separazione delle viscere perché una Brexit completa possa avvenire.
Alcuni elementi emersi nelle ultime 24 ore paiono comprovare questa ipotesi. Secondo il Financial Times il conto che Londra dovrebbe pagare a Bruxelles per chiudere la partita potrebbe risolversi in una costosissima buonuscita compresa tra 40 e 60 miliardi di euro tra progetti sospesi, pagamenti arretrati e progetti iniziati legati alla Gran Bretagna. Una cifra almeno doppia dei 20 miliardi inizialmente stimati dal quotidiano economico britannico. Un memo della società di consulenza Deloitte, che il Governo smentisce categoricamente di avere ispirato, parla peraltro di 500 progetti avviati da esaminare e valutare che comporterebbero l’impegno a tempo pieno di almeno 30mila burocrati. Secondo il memo, peraltro, l’ossessione di controllo del premier Theresa May, che teme che la situazione le sfugga di mano, non farebbe che peggiorare la situazione, dato che sta rallentando l’intero processo. La May insiste che entro fine marzo il Governo invocherà comunque l’articolo 50 del Trattato UE che aprirà la strada ai negoziati per il divorzio. Ma l’ex Cancelliere Kenneth Clarke, un noto eurofilo per onor di cronaca, ha messo in chiaro che il minimo tempo necessario per valutare tutte le implicazioni dell’appartenenza alla UE è di almeno sei mesi.
Così, dopo un voto altamente emotivo e superficiale alimentato da un gruppo di conservatori fortemente ideologizzati ma altamente incompetenti e ignoranti sui meccanismi della UE, di cui è importato loro assai poco, ora è giunto il momento di fare i conti con la dura realtà. Al di là dei numeri, Londra deve peraltro tenere conto dei 3 milioni di europei che si sono capillarmente inseriti nell’economia del Paese in tutti i settori, dalle costruzioni alla finanza, passando per la moda e la ristorazione, l’accademia e la sanità. Un esercito di persone assai difficile da districare dato che è ormai parte integrante del Paese.
Ciò che rende pessimisti è da un lato l’atteggiamento disinvolto dei Brexiter, che con un ridicolo complesso di superiorità e una buona dose di cinismo sono convinti che la UE sarà costretta a fare concessioni, data l’importanza dell’economia Regno Unito per la UE. Dall’altra ci stanno i fautori della linea dura e vendicativa nella UE, sostenuta dai francesi e, secondo il FT, incarnata dal capo negoziatore Michel Barnier, decisa a fare pagare a Londra il conto fino all’ultimo euro con una buonuscita da divorzio Hollywoodiano. Difficile per ora immaginare come questi due atteggiamenti si concilieranno, ma è facile dedurre che, davanti a un crescente irrigidimento tra le parti, rischiano di volare gli stracci. Nel Regno Unito potrebbe crescere un sentimento anti UE nutrito dal nazionalismo garibaldino dei Brexiters e in Europa una crescente intolleranza verso un Paese che, dopo avere chiesto a freddo il divorzio, chiede di poter usufruire ancora di tutti i benefit di un matrimonio. A soffrire rischiano di essere i 3 milioni di europei in Gran Bretagna e 1,5 milioni di britannici che vivono in Europa. Ma il rischio maggiore è che, se il divorzio si provasse lacerante a soffrire sarà non solo la Gran Bretagna ma tutta la UE che potrebbe uscire con le ossa rotte.