La public company non brilla piú

Lo spunto ci viene dall'ultimo numero di The Economist, in occasione della quotazione di Facebook. A prima vista un collocamento che valuta un network sociale 104 miliardi di dollari è indice che la Borsa è ancora la via maestra per dare mezzi freschi alle aziende e arricchire l'intera società, facendo partecipare gli azionisti. Ma il giovane Mark Zuckerberg, tra l'altro neo sposo (auguri a lui), ha seguito un percorso sofferto per arrivarci e ha comunque fatto in modo di controllare la maggioranza dei diritti di voto. Il settimanale britannico rivela peraltro che il numero delle società quotate nei mercati maturi è sceso fortemente nell'ultimo quindicennio: dal 1997 a oggi il calo è stato del 38% in Nordamerica e addirittura del 48% in Gran Bretagna: quasi una su due. Lo stesso vale per le nuove quotazioni: gli Ipo sono calati in America da una media di 311 l'anno tra il 1980 e il 2000 a 99 l'anno tra il 2001 e il 2011. E l'ecatombe peggiore la si è registrata tra piccole e medie aziende che, da una media di 165 l'anno tra il 1980 e il 2000, sono crollate a 30 nel decennio successivo. Proprio le aziende che hanno piú bisogno della Borsa per crescere sono ora quelle che la rifuggono. Recentemente, Giovanni Recordati, patron dell'omonima casa farmaceutica italiana quotata in Borsa, ha detto che se potesse tornare indietro non si sarebbe mai affacciato al listino di Milano.

Che sta succedendo? Tanti fattori stanno congiurando contro. Da un lato i costi della burocrazia di una quotazione in termini di leggi e regolamenti da ottemperare si stanno rivelando sempre piú soffocanti. Dall'altro la pressione degli azionisti, in particolare degli investitori professionali, per risultati di breve termine sta diventando troppo insistente, obbligando il management a sacrificare il lungo termine per strategie di breve. Tale atteggiamento crea una mentalità del mordi e fuggi, con pacchetti di remunerazione congegnati su risultati a breve e sempre piú disallineati agli interessi degli azionisti. Imprenditori e manager che sono legati da un cordone ombelicale all'azienda che hanno creato come Zuckerberg e molti capitani di industria italiani sono dunque molto reticenti a fare il salto in Borsa per timore di consegnare l'azienda nelle mani di "manger mercenari" che nel giro di pochi anni la stravolgono e spolpano come locuste incassando per parte loro grassi pacchetti di danaro.

Tutto in parte vero, alla luce delle recente rivolte contro i bonus di banchieri e top manager che hanno continuato a moltiplicarsi le prebende, mentre le aziende che guidavano andavano male. Ma il clima rivendicativo di questi tempi non deve spingerci a un giudizio tutto negativo sulle public company. Queste sono le uniche realtà aziendali che, raccogliendo danaro fresco sul mercato, permettono la creazione di nuovi poli di benessere: come nota il settimanale, che fine avrebbero fatto Google o Apple se una volta cresciute si fossero vendute alla IBM per incapacità di trovare fondi. Avrebbero mantenuto la stessa originalità e creatività sotto una massa di vecchi manager prepotenti e invidiosi? Inoltre, non dimentichiamo che il grande successo del capitalismo americano, che ha permesso a tutti di partecipare al benessere che si creava è giunto dalle public company. Mentre le aziende del signor Rossi o Bianchi hanno arricchito le rispettive famiglie, qualche dipendente e un poco di ambiente circostante.

E allora? Allora, come sempre, la risposta sta in un'osservazione banale: gli eccessi fanno danno. Gli eccessi del capitalismo famigliare portano a un'economia asfittica, ma gli eccessi del capitalismo delle public company dove nessuno era piú sotto controllo, dove manager avidi hanno predato le aziende in cui lavoravano comportandosi in modo irresponsabile e ignorando l'interesse di fondo degli azionisti hanno causato forti danni economici e sociali. Danni ben maggiori data la dimensione delle aziende coinvolte e la quantità degli azionisti il cui benessere da loro dipendeva. Ora è tempo di riprendere le redini in mano e ripensare nuovi modelli che creino maggiori responsabilità. Che evitano che si avvicendi un manager che gioca a Monopoli all'imprenditore che ha costruito un gioiello nell'arco di una vita.  Questa crisi serve anche a questo: a trovare un nuovo punto di equilibrio.