La definizione è un poco schematica e provocatoria ma rende forse bene il dilemma di fronte a cui siamo. In questa crisi il capitalismo privato con la P maiuscola si è preso una rivincita su quello collettivo delle public company. Dopo anni di critiche contro la mancanza di trasparenza del capitalismo europeo continentale, quello anglosassone è oggi alle corde e in forte imbarazzo nel difendere il proprio modello. Gli abusi nella Governance, specie nelle banche, le folli retribuzioni che i top manager si sono versati a fronte di rischi insostenibili, hanno messo alla gogna un intero modo di operare. Eppure, sul fondo, il dilemma rimane: meglio un capitalismo chiuso, di stampo o ispirazione famigliare o amicale, con un chiaro gruppo di controllo che rischia di penalizzare le minoranze o meglio un capitalismo generoso aperto a tutti, in cui c'è però il serio rischio che i controlli si allentino al punto che i top manager non rispondono più a nessuno del proprio operato?
La risposta se la sono già data in buona parte gli anglosassoni, facendo in questi mesi un'aperta critica al loro modello. I media hanno infatti linciato in pubblico numerosi top managers, rei di essersi versati retribuzioni da capogiro anche quando le aziende che guidavano andavano male. Gli eccessi di rischi presi dagli istituti finanziari sono oggetto di riforme regolamentari. La finanziarizzazione eccessiva dell'economia è stata criticata. Come pure criticata è stata la visione di breve termine che ha generato gravi errori di valutazione. Londra, che in Gran Bretagna è stata all'epicentro della crisi finanziaria, è stata oggetto delle amorose cure del sindaco Boris Johnson che in modo un poco ingenuo ha tentato di promuovere risorse come il turismo, spettacolo ed arte per controbilanciare il restringimento dell'economia finanziaria. Insomma, il modello anglosassone, scosso alle fondamenta, ha iniziato a correggersi dopo un ricco dibattito che ha invaso giornali, testate specializzate e istituti di ricerca. Il capitalismo collettivo era diventato talmente anonimo da non essere più di nessuno e dunque in balia di pericolosi pescicani. E il vecchio capitalismo privato? Ha dato prova di tenuta, se l'è presa con il mondo della finanza che, con i propri eccessi, ha tolto alle banche le risorse necessarie da prestare alle virtuose aziende. Ma alla fin dei conti, operativamente, durante questa crisi non ha fatto meglio delle public company né ha approfittato della situazione per scovare un'alternativa attraente che riesca a risolvere l'annosa ricerca di un equilibrio tra gestione responsabile dell'impresa e protezione degli azionisti di minoranza. Al momento il capitalismo "privativo" nel senso che favorisce una proprietà ben individuabile in famiglie e nuclei di controllo e mantiene la propria forza nel privare altri dal partecipare a un'entità più ampia di generazione di benessere, ha mostrato più affidabilità. Ma è l'affidabilità di un mondo passato che aveva comunque dato quanto poteva distribuendo ricchezza a una cerchia più ristretta ristretto alla public company aperta a tutti. Il capitalismo collettivo è inevitabilmente il modello del futuro, dato che permette a più persone di accedere alla creazione di ricchezza delle aziende. Ma dato l'enorme numero di azionisti che esso coinvolge rispetto a società private o con nuclei azionari o azionisti di riferimento è anche quello che, se male gestito, può distruggere più ricchezza. E questo modello è in crisi e ha bisogno di serie riparazioni. Se sarà riparato a dovere tornerà molto probabilmente a essere l'unico percorso praticabile di creazione di benessere su vasta scala. D'altronde, in Europa continentale, rispetto a 20 anni fa, il numero delle public company si è a propria volta moltiplicato generando un capitalismo più diffuso. Il che in sè non è stato un male.