La battuta che gira in questi giorni è che le differenze tra Islanda e Irlanda sono essenzialmente due: una lettera e sei mesi di ritardo. I sei mesi sarebbero il tempo allo scadere del quale l'Irlanda si recherà con il cappello in mano davanti al Fondo Monetario Internazionale per evitare la bancarotta. L'Islanda, le cui banche avevano debiti pari a 10 volte il pil del Paese, è dovuta infatti ricorrere a un prestito d'emergenza del Fmi da 2,1 miliardi di dollari in dicembre . Secondo i pessimisti, l'Irlanda sarà costretta a fare lo stesso. La prospettiva peggiore è che, altri sei mesi dopo, potrebbe toccare alla Gran Bretagna.
Il caso irlandese ha dell'incredibile: la "tigre celtica" come è stata definita, con tassi di siluppo "cinesi" nell'ultimo decennio, dopo un miracolo economico che pareva senza fine si è ridotta nel giro di pochi mesi a un caso clinico: il valore delle case è crollato del 30% dall'inizio del 2007, negli ultimi 12 mesi la disoccupazione è salita dal 4% all',8,5%, con la prospettiva di superare l'11% a fine anno. Il rapporto tra deficit e pil rischia a propria volta di raggiungere il 10% nel 2009 mentre quello tra debito pubblico e pil balzerà tra fine 2007 e la fine di quest'anno dal 25% al 60% a causa delle forti spese che il Governo è chiamato a sostenere per tenere a galla un'isola che sta facendo acqua da tutte le parti. Pochi giorni fa Dublino ha dovuto infatti annunciare la nazionalizzazione della Anglo Irish Bank per evitare il peggio. La Waterford Wedgwood, leggendaria produttrice di cristalli e porcellane, ha dovuto chiudere i battenti, mentre il colosso americano dei computer Dell ha annunciato che chiuderà gli impianti e sposterà la produzione in Polonia. Sono notizie sparse che hanno però un messaggio chiaro: il sistema bancario sta boccheggiando, quello industriale fatica a stare in piedi e l'attrattiva dell'Irlanda nei confronti degli investimenti esteri è finita. Ecco dunque un bel caso di economia drogata che paradossalmente ha subito un'aggravante negli ultimi mesi dall'appartenenza all'area euro dato che i tassi dell'eurozona, più alti di quelli inglesi, hanno portato a un crollo della sterlina spingendo gli irlandesi a far shopping in Nord Irlanda (parte del Regno Unito) a scapito del proprio Paese. In passato il legame con l'euro ha creato un problema opposto in Irlanda, pesando particolarmente sul mercato immobiliare, a causa dei tassi più bassi dell'area euro rispetto alla Gran Bretagna. Tassi che hanno incoraggiato in Irlanda in questi anni prestiti ipotecari ancora più generosi e scellerati rispetto a quelli inglesi. Oggi chi suggerisce un ingresso dell'Islanda nell'euro per salvare la piccola isola dal tracollo definitivo potrebbe non avere torto. Ma, a giudicare dal caso irlandese, sarebbe forse stata un fattore aggravante se Reikjavik avesse abbracciato l'eurozona qualche anno fa. Insomma, il modello anglosassone e l'euro, col senno di poi, hanno costituito un cocktail fatale per gli irlandesi. Il che non esime gli inglesi dal cantare vittoria. I tassi più alti della sterlina hanno permesso di contenere finora i danni nel settore immobiliare. Ma Londra come Dublino e Reikjavik ha problemi strutturali, primo tra tutti un eccesso di esposizione alla finanza, alle case e ai servizi.