Ci risiamo. Questa volta a criticarci non è il New York Times né The Times bensì il Financial Times, l’augusto quotidiano della City di Londra. Motivo, ancora una volta arcinoto a casa nostra: l’Italia è impermeabile agli investimenti esteri. Risultato: si è riscatenata una canea – dato che la critica viene dall’estero – con grande mobilitazione di media e personaggi politici, la cui occupazione principale, oltre a farsi sgambetti mentre l’economia mondiale è in crisi nera, pare essere quella di monitorare la stampa estera. Qui a Londra accade esattamente l’opposto: in 15 anni non ho mai visto alcuna critica, anche la più rovente, rivolta dalla stampa estera al Governo, alle istituzioni o alla società britannica, creare l’agitazione che si scatena da noi. Come è possibile?
Ancora una volta tento di azzardare delle ipotesi. Gli inglesi hanno un complesso di superiorità e noi di inferiorità e dunque siamo vulnerabili a qualsiasi critica. Abbiamo pochissima sicurezza in noi stessi e dunque dipendiamo in modo abnorme dal giudizio altrui. In una sorta di amore e odio verso gli stranieri li ringraziamo per pungolarci ma ipocritamente ci mostriamo seccati. Sappiamo benissimo quali sono i problemi che ci affliggono ma ci abbandoniamo in una sorta di oblio e quando qualcuno da fuori ce li fa notare ci svegliamo di soprassalto e reagiamo con un misto di fastidio e panico. Alla fine ripiombiamo nella rassegnazione poichè pensiamo che i problemi siano troppo complessi da risolvere.
Il Financial Times ha rilevato che sul fondo il nostro è ancora un Paese medievale, fatto di botteghe e piccole imprese che bloccano l’arrivo del "progresso" incarnato dai grandi gruppi multinazionali e dalle grandi catene straniere. E illustra l’articolo con una bella foto di un interno di una salumeria, probabilmente di provincia. L’esempio del giornalista è un po’ infelice, dato che se c’è una cosa di cui possiamo andare fieri è un’industria alimentare che sforna i prodotti migliori del mondo proprio in virtù di questo micro-capitalismo che persegue ossessivamente la qualità, anche a scapito dei forti margini di profitto che può dare una catena alimentare. E tiene alla larga i grandi gruppi che somministrano in gran parte prodotti mediocri nei Paesi più "avanzati". Detto questo, per molti altri aspetti l’articolo coglie nel segno laddove nota che l’eccesso di burocrazia, la mancanza di certezza della legge, la sua applicazione à la carte, la pochissima disponibilità nei confronti degli stranieri, un provincialismo incurabile che ci tiene sempre più a interagire tra noi in un comodo batuffolo di comportamenti sempre più chiusi e ai margini degli altri Paesi occidentali. Un batuffolo in cui la classe dirigente politica ed economica non si mette in gioco aprendosi e competendo secondo le regole della globalizzazione.
Tutto ciò è un vero peccato. Perché gli italiani sono dei lottatori e dimostrano di essere fortemente competitivi. Non solo come singoli individui, come prova la quantità di finanzieri che si sono fatti valere nella City di Londra percorrendo importanti carriere con posizioni di vertice europee se non mondiali all’interno di importanti istituti finanziari. Ma anche come aziende. E su questo fronte un motivo di speranza giunge da uno studio della Camera di Commercio Italiana in Gran Bretagna (si veda Il Sole 24 Ore di giovedì 24 gennaio) da cui emerge che le imprese italiane tra il 2000 e il 2006 hanno raddoppiato la presenza in Gran Bretagna passando da 443 a 681, con ricavi balzati da 7,2 a 14,6 miliardi di sterline (20 miliardi di euro) e un esercito di dipendenti, saliti da 26mila a 46mila. Una presenza che si misura nel mercato più aperto del mondo e negli anni è passata da settori tradizionali come la meccanica (Fiat-Iveco, Pirelli Tyres, Cnh, Finmeccanica, Merloni-Indesit, Hoover-Candy, Argo-Mc Cormick e Comau) o l’energia, con l’Eni cha fa la parte del leone, a settori nuovi. Complice il boom dell’Italian style le aziende alimentari sono in piena crescita, a partire da Ferrero che da anni ha radici nel Regno Unito, passando per Gallo, Bindi, Tynant, Galbani, Saclà, Lavazza, La Doria e Cremonini. Ciò che è ancora più incoraggiante è la crescita del settore telecomunicazioni e media in quella che è la capitale dei media del mondo: non solo editori come De Agostini o Panini, Fabbri e Publieurope ma anche Tiscali, che in Gran Bretagna è quarta nel settore della banda larga, o Bravo Solution, che opera nell’e-procurement e sta registrando una crescita rapidissima con clienti come i maggiori ministeri britannici, la BBC e altre grandi aziende inglesi. Perfino le società di pubbliche relazioni hanno messo il naso fuori d’Italia con l’arrivo di Barabino & Partners. A cui si aggiunge una serie sempre più lunga di studi legali e società di consulenza. Queste aziende che danno prodotti ad alto valore intellettuale hanno in massima parte personale locale, sono guidate da giovani manager italiani che parlano perfettamente l’inglese e ne conoscono la cultura. In breve, cresce il numero di persone che rappresentano il futuro dell’Italia e si fanno le ossa nella piazza più globale del mondo con un’apertura sul pianeta. Se il nostro Paese nel suo insieme resta ancora chiuso e provinciale importanti avanguardie usano la palestra inglese per imparare a stare al mondo. Una classe dirigente di riserva capace di aiutare l’Italia a riprendere fiducia e trovare una posizione internazionale. E’ solo questione di tempo. Quando la pressione esterna diverrà irresistibile, la vecchia guardia, sempre meno in grado di fare fronte a un mondo che cambia e trincerata in battaglie di retroguardia, sarà costretta a passare la mano.